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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI Pubblicazioni del Dipartimento di Giurisprudenza Serie II 4 I volumi della serie Pubblicazioni del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Cagliari sono sottoposti alla preventiva valutazione scientifica di due referees anonimi di volta in volta designati dal responsabile della Collana nominato dal Consiglio di Dipartimento. UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI PUBBLICAZIONI DEL DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA Serie II ANTROPOLOGIA DELLA VENDETTA a cura di Giuseppe Lorini e Michelina Masia Edizioni Scientifiche Italiane n.s. 4 Il presente volume è stato pubblicato con un contributo della Fondazione Banco di Sardegna. Lorini, Giuseppe; Masia, Michelina (a cura di) Antropologia della vendetta Collana: Pubblicazioni del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Cagliari Serie II, 4 Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 2015 pp. XVI+312; 24 cm ISBN 978-88-495-2863-3 © 2015 by Edizioni Scientifiche Italiane s.p.a. 80121 Napoli, via Chiatamone 7 Internet: www.edizioniesi.it E-mail: info@edizioniesi.it I diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale o parziale e con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla siae del compenso previsto dall’art. 68, comma 4 della legge 22 aprile 1941, n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra siae, aie, sns e cna, confartigianato, casa, claai, confcommercio, confesercenti il 18 dicembre 2000. INDICE La vendetta: istinto o istituzione? Introduzione di Giuseppe Lorini e Michelina Masia Ringraziamenti IX XV La vendetta nel mondo Laura Nader, Vendetta, barbarie e Osama bin Laden. Al punto di partenza 3 Fabio Botta, La vendetta come officium pietatis 11 Giorgio Fabio Colombo, Chu\shingura: la vendetta fra diritto e immaginario popolare nel Giappone premoderno 39 Domenico Francavilla, La vendetta in India: dharma ed effetti dell’azione nelle concezioni tradizionali hindu 51 Wojciech Żełaniec, La vendetta nei paesi nordici all’epoca dei Vichinghi 71 La vendetta in Barbagia Paolo Di Lucia, La vendetta in Sardegna: un’ipotesi ermeneutica 83 Michelina Masia, Rappresentazioni e mistificazioni della vendetta barbaricina 91 Stefano Colloca, Vendetta barbaricina e pluralità degli ordinamenti 111 Maria Grazia Cugusi, La vendetta barbaricina nelle riflessioni di due penalisti sardi 117 VI Indice Le categorie della vendetta Amedeo Giovanni Conte, Némesis. Filosofia della vendetta 135 Edoardo Fittipaldi, Vendetta della vittima vs. vendetta di vergogna 143 Giuseppe Lorini, Il linguaggio muto della vendetta 155 Lorenzo Passerini Glazel, La semantica nomotrofica della vendetta 169 Vendetta e reciprocità Rodolfo Sacco, Vendetta 183 Filippo Aureli, Roberto Cozzolino, Carla Cordischi, Stefano Scucchi, Reindirizzamento dell’aggressione contro i parenti dell’aggressore tra i macachi giapponesi: espressione di un sistema vendicatorio? 187 Raffaele Caterina, La reciprocità: alle origini della vendetta e dello scambio 205 Olimpia Giuliana Loddo, Reciprocità di aspettative e aspettative di reciprocità nella vendetta 217 Vendetta e sanzione Venanzio Raspa, Crimine, punizione, destino. Per un superamento della vendetta 231 Cristiano Cicero, Tra vendetta e sanzione. Il problema delle pene private 251 Gaetano Riccardo, Oltre la giuridicità: la vendetta come fatto sociale totale 257 Ilenia Ruggiu, Vendetta e multiculturalismo 271 Indice VII Appendice Amedeo Giovanni Conte, Onomasiologia della vendetta 291 Indice dei nomi 297 Venanzio Raspa CRIMINE, PUNIZIONE, DESTINO. PER UN SUPERAMENTO DELLA VENDETTA In loro brucia la vendetta, e certo i mali che hanno subito / spingerebbero al sangue e al clamore della battaglia / l’uomo mortificato. William Shakespeare La vendetta è il territorio infinito delle conseguenze indesiderate. Daniel Pennac Sommario: 1. La sposa vendicatrice. – 2. Preghiera e vendetta nella Bibbia. – 3. Un piatto che non sazia (Aristotele, Spinoza, Kant). – 4. Oltre la vendetta (Hegel). - 4.1. Crimine e punizione: il diritto come vendetta. - 4.2. Il superamento della vendetta nel destino. - 4.3. L’esclusione della possibilità della vendetta nell’anima bella. – Bibliografia. - Filmografia. 1. La sposa vendicatrice. – In Kill Bill vol. 1 Beatrix Kiddu (Uma Thurman) ha subìto una grave offesa da parte della Squadra Assassina Vipere Mortali, che hanno ammazzato il suo uomo il giorno delle prove per il matrimonio e l’hanno ferita gravemente, facendole perdere – questo pensa lei fino al finale della seconda parte del film (Kill Bill vol. 2) – la bambina che portava in grembo. La Sposa decide di vendicarsi, anzi, nemmeno lo decide: è ovvio che debba farlo. Quando uccide Vernita Green (Vivica A. Fox), una delle Vipere, Beatrix si accorge di averlo fatto proprio al cospetto della figlioletta di lei Nikki (Ambrosia Kelly). Mentre ripulisce il coltello dal sangue di Vernita, Beatrix dice alla piccola Nikki che non aveva intenzione di fare i conti con sua madre proprio davanti a lei e che dell’accaduto è responsabile solo Vernita. Prima di andare via, rivolta alla bambina, aggiunge: «Quando sarai grande, se la cosa ti brucerà ancora e vorrai vendicarti, io ti aspetterò». Che il sangue vada lavato con il san- 232 Venanzio Raspa gue non è un codice privato esclusivo della Sposa; costei ritiene invece che tale codice sia comune o, meglio, naturale, e che anche la figlioletta della donna da lei appena ammazzata possa nutrire giustificati sentimenti di vendetta. Pertanto, quando verrà l’ora e se Nikki lo vorrà, Beatrix sarà lì ad attenderla, non per farsi ammazzare – ovviamente – ma per darle soddisfazione. Sarà disposta a scendere nell’agone della lotta, una lotta per la vita e per la morte, in cui non necessariamente il vendicatore ha il sopravvento. Resta fermo che, se il codice è comune, la vendetta è privata, e non va demandata all’autorità pubblica. In prima istanza possiamo dunque definire la vendetta come una reazione passionale privata, da parte di un individuo o un gruppo di individui, a un torto subìto nei confronti di chi tale torto ha perpetrato, al fine di fargli del male. Se accettiamo di discutere questa accezione, notiamo subito che il concetto di vendetta non si comprende se non in relazione a quelli di offesa, punizione e giustizia. Fra questi è però il termine “vendetta” quello di maggior successo, come testimoniano centinaia di titoli di romanzi e di film – basta cercare in una qualsiasi libreria online per averne la riprova. Non solo Kill Bill, ma la maggioranza dei thriller che invadono i nostri schermi giocano con questi concetti; spesso un torto ricevuto o, viceversa, un crimine commesso da un individuo, sono all’origine di un desiderio di giustizia che stimola all’azione e può confondersi con quello di vendetta. Senz’altro i concetti di giustizia e vendetta erano originariamente non soltanto connessi, ma fusi insieme; ancora oggi non sempre è possibile tracciare un limite netto fra essi – e questo ne rende complessa la trattazione. Il problema che qui si pone è il seguente: se la vendetta trae origine da un’offesa subìta ingiustamente, o che almeno si crede di aver subìto ingiustamente, come fare perché l’esercizio della giustizia non sia mera vendetta? La vendetta esclude sia il perdono sia la possibilità dell’espiazione della colpa. In Boksuneun naui geot (Sympathy for Mr. Vengeance), Park Dong-jin (Song Kang-ho) dice a Ryu (Shin Ha-kyun), prima di ammazzarlo, queste semplici parole: «Lo so, sei un bravo ragazzo, ma dovrò ucciderti. E sai perché dovrò ucciderti? Non posso perdonarti. Capisci?». Ancora piangendo si immerge nelle acque del fiume nel quale è affogata accidentalmente la figlia, dopo che Ryu l’aveva rapita con l’intento di pagare con l’eventuale riscatto un’operazione al rene per la sorella, e gli taglia l’arteria tibiale posteriore, lasciandolo morire dissanguato. Ma nessuno può perdonare, nemmeno i compa- Crimine, punizione, destino. Per un superamento della vendetta 233 gni di Cha Yeong-mi (Bae Doo-na), la ragazza di Ryu, precedentemente ammazzata da Park Dong-jin: lo pugnalano a morte e lo lasciano a sua volta morire dissanguato. 2. Preghiera e vendetta nella Bibbia. – La definizione di vendetta proposta sopra corrisponde sostanzialmente all’accezione moderna. In realtà, il concetto di vendetta, così come le diverse parole che lo esprimono, dipendono fortemente sia dal contesto antropologico e culturale sia dal tempo storico, che – come ammoniva Moses Mendelssohn – non è il medesimo per tutti e in ogni luogo1. Dall’esame del significato della vendetta presso un determinato popolo si può giungere a individuare una più generale concezione del mondo, dell’uomo e della comunità. Secondo le Scritture ebraiche, accolte anche nel canone cristiano, l’individuo è parte della comunità, l’azione del singolo coinvolge l’intera comunità, e la vendetta (naq \ am \ ) significa compensazione, ossia annullamento di un torto subìto, ripristino dell’ordine perduto, dell’interezza della collettività2. Chi uccide un uomo ferisce non soltanto la collettività, ma la vita stessa. In tal senso, la vendetta non implica necessariamente odio, come nella concezione moderna. In questa sede non mi occuperò di quella figura giuridica, accettata e riconosciuta, che era il vendicatore del sangue (go’\ el\ ) e che ha richiesto, nel periodo premonarchico di Israele, l’istituzione delle città d’asilo; mi soffermerò, invece, sull’invocazione della vendetta, una richiesta che, proferita in una preghiera, sembra stridere fortemente con la sensibilità moderna di condanna pressoché unanime della vendetta. Il salmo 137, così venato di lirismo nel rievocare le lacrime versate sulle rive dei fiumi di Babilonia e le cetre appese ai salici, così toccante nel rappresentare l’irrisione degli oppressori che – come in tempi più recenti – chiedevano alle vittime di cantare canti di gioia, dopo aver riaffermato la fedeltà al Signore, si conclude con un’imprecazione che grida vendetta: O figlia di Babilonia destinata allo sterminio, beato chi ti ricambierà il male che ci hai fatto. 1 Cfr. Mendelssohn 1783, 45-46; tr. it. 112. Sulla vendetta nelle Sacre Scritture cfr., oltre ai vari dizionari biblici, Barbaglio 1991, 126-139. 2 234 Venanzio Raspa Beato chi prenderà i tuoi pargoli e li sbatterà contro la pietra3. Colpisce la sensibilità di credenti e non-credenti che una preghiera contenga una simile richiesta nei confronti del Signore. Nel caso specifico si dice, infatti, che non ci si fa vendetta da sé, ma – in consonanza con Deut 32,35 («A me la vendetta e la ricompensa») – che la si affida a Dio. La terza persona singolare sta spesso a indicare la divinità. E infatti il soggetto dell’atto vendicativo è, in gran parte del testo biblico, Dio stesso, il Dio del diritto, che fa giustizia. In più luoghi la traduzione CEI usa il termine “giustizia” al posto di “vendetta”4. Ma nel salmo 137 – così come, ad esempio, nel salmo 109 – sembra che la vendetta prevalga nettamente sulla giustizia. Può una preghiera esprimere simili sentimenti? Richiedere vendetta? A mio avviso, questo salmo va letto ponendosi dal punto di vista di colui che vi esprime tali sentimenti. Non è qualcuno che ha scritto seduto in poltrona, ma che, con tutta probabilità, è stato vittima di una violenza estrema, che l’ha ridotto in condizioni miserrime, di totale impotenza5. Alcuni anni fa apparve sul quotidiano «la Repubblica» un reportage sui profughi del Darfur; vi si raccontava di donne, un tempo bellissime, che sono state sottoposte a stupri e violenze atroci, alle quali sono stati storpiati gli arti e che ora possono muoversi solo carponi6. È da questo punto di vista, quello delle vittime, che va letto il salmo 137. Se poi si considera che esso è espressione della situazione di esilio di Israele, ecco che la vendetta sembra implicare persino la liberazione. Un’altra costellazione di termini La traduzione è tratta da La Bibbia concordata. Antico Testamento, a cura della Società Biblica di Ravenna. 4 Cfr. Sal 94,1-2: «Dio che fai giustizia [Dio delle vendette], o Signore, / Dio che fai giustizia [Dio delle vendette]: mostrati!». 5 Cfr. il commento di Zenger 2005, 99-104. Cfr. anche Bianchi 2001, 21-22. 6 Cfr. Visetti 2007: «Sotto il fondo si muovono infine gli impresentabili, coloro che fanno schifo anche agli sfollati. Khamisa, fuggita dal Nord Darfur, guida le giovani a quattro zampe. Stuprate e torturate dagli arabi a cavallo, hanno le articolazioni spezzate e calcificate. Brandelli di plastica proteggono loro le ginocchia e i palmi delle mani. Ogni giorno si trascinano nelle discariche e tra gli escrementi che riempiono i vicoli. Masticano ossa, succhiano bucce e leccano l’acqua dalle pozzanghere. Sono state bellissime. Ora avanzano ondeggiando come branchi di caimani, mordendo i polpacci dei rivali: ciechi, orfani, lebbrosi, malati in genere, pazzi in preda al delirio. Nessuno le sposta, quando cedono con la bocca nella polvere. Il governo è impegnato a incassare i dollari cinesi, arabi e malesiani». 3 Crimine, punizione, destino. Per un superamento della vendetta 235 interessante da studiare è quella che vede la vendetta collegata sia alla giustizia sia alla liberazione. 3. Un piatto che non sazia (Aristotele, Spinoza, Kant). – Anche la vendetta si dice in molti modi; ma che – come si accennava sopra – essa sia un fatto privato con una base passionale è stato più volte ripetuto nella tradizione filosofica, anche da autori non in sintonia fra loro come Aristotele e Spinoza. In realtà, originariamente il pensiero greco indicava con timwr…a sia la vendetta sia la punizione7. È con Aristotele che, oltre ad essere messo in evidenza l’aspetto affettivo che caratterizza la vendetta, questa viene nettamente distinta dalla punizione (kÒlasij): Le cose atte a compiere vendette sono dovute ad animosità e a ira. Ma vi è differenza tra vendetta [timwr…a] e punizione [kÒlasij], giacché la punizione è in vista di chi la subisce, mentre la vendetta di chi la compie, affinché sia saziato8. Similmente per Spinoza la vendetta è lo sforzo di ricambiare con il male chi ci ha fatto del male; sebbene – aggiunge – possa anche accadere che il male subìto non sia reale, ma solo immaginato9. Soprattutto però, d’accordo con Hobbes sul fatto che gli uomini «sono guidati più dall’affetto che dalla ragione», Spinoza individua nel «desiderio di vendicare qualche torto fatto a tutti» un affetto comune che può fungere da guida per la moltitudine come «una sola mente»10. Un’idea che ricorda la concezione biblica sopra brevemente schizzata. In entrambi gli autori emerge chiaramente l’idea che la vendetta sia qualcosa di essenzialmente diverso dalla punizione. Aristotele, in particolare, addita una duplice via che la reazione a un’offesa ricevuta può imboccare: la punizione persegue lo scopo di colpire l’offensore, la vendetta di soddisfare (“saziare”) l’offeso. È una distinzione essenziale, che va ulteriormente approfondita. Kant parla della vendetta da un punto di vista sia privato che pubblico. Nell’Antropologia pragmatica, egli sostiene che l’odio per Cfr., ad esempio, Erodoto, 2, 120; 7, 169. Aristotele, Rhet. A 10, 1369 b 12-13; tr. it. 195. 9 Cfr. Spinoza, Ethica, III, pr. 40, schol. cor. 2 e schol.; III, aff. def. 37; 1925a, II, 172 e 201; tr. it. 935 e 966. 10 Spinoza, Tractatus politicus, VI, § 1; 1925b, 297; tr. it. 1137. 7 8 236 Venanzio Raspa un torto subìto, ossia «il desiderio di vendetta, è una passione che irresistibilmente proviene dalla natura dell’uomo»11. Per passioni Kant intende inclinazioni (Neigungen) dell’uomo verso l’uomo. Ebbene, per quanto una passione come il desiderio di vendetta possa essere cattiva, essa è tuttavia un analogo del desiderio di giustizia; e però, una volta soddisfatta, lascia sopravvivere un intimo odio, il rancore. Il compimento della vendetta non toglie l’odio (“non sazia”) e la sopravvivenza di questo intimo odio è segno del persistere di una separazione. Nella Metafisica dei costumi, Kant afferma che la brama di vendetta, che egli include fra i vizi della misantropia, è «la forma più dolce» di gioia per il male altrui. Essa – dice – sembra addirittura basarsi su un diritto essenziale e auspica il male altrui indipendentemente da ogni vantaggio personale. Ma la vendetta non è solo un atto privato posto in essere dall’offeso. Ogni azione che offende il diritto di un uomo merita punizione e questa punizione vendica il delitto nella persona del colpevole (non ripara [ersetzt] soltanto il danno personale)12. Tale punizione corrisponde all’azione di un tribunale, che rende effettive le leggi emanate da un’autorità sovrana. Kant distingue quindi l’aspetto privato da quello pubblico, ma collega chiaramente giustizia e vendetta, se è vero che la punizione vendica il delitto. Se poi consideriamo gli uomini sì in uno stato giuridico, ma regolandoci non secondo leggi civili, bensì unicamente secondo leggi della ragione, nessuno – dice Kant – ha il diritto di infliggere punizioni, se non il supremo legislatore morale, cioè Dio. È pertanto un dovere morale non soltanto non infliggere vendetta, ma anche non richiederla a Dio, e ciò per un duplice motivo: perché non c’è uomo che non abbia bisogno di essere perdonato e perché nessuna punizione deve mai essere ispirata dall’odio. È un dovere invece lo spirito conciliante, che però non comporta l’accettazione passiva delle offese13. Kant cita Deut 32,35, ma molto probabilmente non avrebbe condiviso la lettura del salmo 137 proposta sopra. In sintesi, (i) vendetta e giustizia sono diverse (come ha soste11 12 13 Kant 1917, 270; tr. it. 162. Kant 1914, 460; tr. it. 331. Cfr. Kant 1914, 460-461; tr. it. 331. Crimine, punizione, destino. Per un superamento della vendetta 237 nuto Aristotele), ma correlate (come ha aggiunto Kant); inoltre, (ii) la vendetta muove da una passione finalizzata a saziare l’offeso (ancora Aristotele), ma lascia tuttavia persistere un intimo odio, che è indice del permanere di una separazione (precisa Kant). Questi temi vengono ripresi e approfonditi da Hegel, attento lettore sia di Aristotele e Spinoza che di Kant; di quest’ultimo egli aveva letto già giovanissimo la Metafisica dei costumi, sulla quale nel 1798 aveva anche scritto un commento, poi andato perduto. 4. Oltre la vendetta (Hegel). – 4.1. Crimine e punizione: il diritto come vendetta. – In quella compilazione di testi hegeliani prodotta e intitolata da Rosenkranz Propedeutica filosofica, Hegel riprende la distinzione aristotelica fra punizione e vendetta: la prima è posta in atto dal giudice, la seconda dalla parte offesa. Egli condanna inoltre quest’ultima come un mero arbitrio privato mosso dalle passioni e condanna persino il diritto attuato come vendetta: il diritto, attuato come vendetta, è, a sua volta, una nuova offesa, viene sentito soltanto come una azione singola e si trasmette, così, implacabilmente, all’infinito14. Tale condanna implica tuttavia un riconoscimento del dato di fatto che il diritto può avere una simile forma. In un contesto di giustizia positiva, quale è quello prospettato dallo stesso Kant, la punizione vendica il delitto. E una vendetta sembra essere ogni punizione comminata dall’autorità civile che lascia permanere lo stato di separazione fra il reo e chi è stato vittima di un crimine, sia esso un individuo o una collettività. L’ordine viene ristabilito attraverso la distruzione del reo. Quel diritto che il testo biblico ascriveva a Dio, il compimento della vendetta, lo stato lo arroga a se stesso. Eppure si fa fatica a pensare che la pena inflitta da un tribunale sia, o possa essere, espressione di una vendetta; sembra anzi che essa si proponga di conseguire proprio l’opposto: impedire la vendetta privata, in quanto il delitto perpetrato contro un singolo appartenente alla collettività è (sentito) come un delitto contro l’intera collettività. Tuttavia, il concetto di soddisfazione del singolo non è estraneo al comminare una pena, e quando l’esercizio della giustizia prevede in alcuni stati la pena ca14 Hegel 2006, § 21, 399; tr. it. 47. 238 Venanzio Raspa pitale, o un numero di anni di carcere che può addirittura essere superiore a un’intera vita, è difficile non vedervi una vendetta. Se poi si considera che i parenti dei condannati a morte sono invitati ad assistere all’esecuzione del condannato, allora è evidente che né la società né i singoli hanno perdonato, e che l’esercizio del diritto in tali casi è vendetta. È possibile un superamento della vendetta? Per tentare una risposta – né facile né definitiva – occorre riconsiderare il concetto di pena. Penso che un lavoro serio sulla pena sia quanto mai attuale e necessario per la nostra società. Una riflessione molto interessante al riguardo si trova in un testo giovanile di Hegel, risalente al periodo francofortese: Lo spirito del cristianesimo e il suo destino15. Hegel non offre delle soluzioni soddisfacenti, egli stesso le critica, ma pone il problema in maniera esemplare. Non ci interessano qui i risvolti storiografici del testo, il fatto che Hegel, intriso di spirito spinoziano, prenda le distanze da Kant e dal modo in cui questi intende la giustizia. Per i nostri scopi sono interessanti quelle pagine nelle quali Hegel esamina il caso concreto della violenza: un individuo, in possesso della propria libertà morale, potendo scegliere fra virtù e vizio, commette deliberatamente un delitto, coinvolgendo con la sua azione altri soggetti e chiamando in causa l’intera collettività, perché – dice Hegel – un delitto non è solo una ferita contro una vita particolare, ma contro la vita come totalità. Veniamo al testo16. Nel momento in cui viene commesso un delitto, la legge vi si oppone quanto al contenuto. Il delitto è una distruzione della natura, ossia della vita, tanto nel reo (im Zerstörenden) quanto nella vittima (im Zerstörten), poiché la natura è una. Nel compiere l’atto, il criminale toglie la legge, in quanto concetto universale, e la rimpiazza con un contenuto reale, il delitto appunto. A sua volta, la legge gli si erge contro come legge penale, opposta alla vita del reo, di cui esige la distruzione. Prima che il crimine venisse commesso, non esisteva separazione alcuna, né opposizione o dominio – come accade, Cfr. Hegel 1907, 243-342; tr. it. 353-457. Si tratta delle pagine di Hegel 1907, 276-293; tr. it. 389-406, in cui Hegel prende in esame, secondo Peperzack (1960, 161), la legge veterotestamentaria del taglione – «il sacro principio di ogni giustizia, il principio su cui deve poggiare ogni costituzione statale» (Hegel 1907, 271; tr. it. 384) –, da Kant considerato il principio unico del diritto penale. 15 16 Crimine, punizione, destino. Per un superamento della vendetta 239 al contrario, a proposito della legge positiva. È solo con l’atto che si è dato origine all’opposizione di legge-delitto, trasformatasi poi in quella di punizione-vita, là dove la punizione costituisce il contenuto della legge. In un contesto di giustizia positiva, qualsiasi conciliazione è impossibile: o (i) si toglie la legge stessa, così che permane la prima opposizione (legge-delitto) e il reo resta impunito; oppure (ii) la giustizia segue il proprio corso punendo il criminale, vendicando il delitto, ma anche in questo caso l’azione compiuta permane come accaduta e non è tolta nemmeno con la pena. Come è possibile una conciliazione che comporti l’eliminazione non della giustizia, bensì della separazione, e quindi della vendetta? La punizione ha origine dalla legge offesa: il criminale, nel compiere il delitto, si è posto al di fuori della legge, privandosi così dello stesso diritto che ha violato in un altro. Poiché la legge è solo un pensato, di conseguenza solo il concetto del criminale perde tale diritto; perché ciò accada di fatto, è necessario che alla legge si colleghi la forza: in questo modo, essa si rivolge non contro un concetto, ma contro un vivente. A questo punto può sorgere però una contraddizione «fra la giustizia come universale, come pensato, e la giustizia come reale, cioè come esistente in un vivente»17, ossia fra la giustizia in astratto e quella che viene di fatto amministrata. Tanto la legge quanto la punizione non possono non divenire effettivi, se infatti la legge condonasse la punizione, si eliminerebbe da sé; d’altra parte, il criminale, l’esecutore della legge e il giudice non sono delle astrazioni, ma dei viventi – alla necessità della punizione non segue necessariamente l’esecuzione della giustizia. Se il vendicatore perdonasse, o il giudice concedesse la grazia, la giustizia in quanto universale resterebbe insoddisfatta – siamo nel caso (i) –; invece «essa è inevitabile, e finché le leggi sono la cosa suprema, non ci si può sottrarre ad esse e l’individuale deve essere sacrificato all’universale, cioè deve essere ucciso»18. Il delitto è una realtà, ciò che è accaduto non può essere reso non accaduto; la punizione segue l’atto, la loro connessione è indissolubile. Se non vi è nessuna via per rendere un’azione non accaduta, se la sua realtà è eterna, allora non è possibile nessuna riconciliazione [Versöhnung], neanche col sottostare alla pena; la legge è sì soddisfatta, giacché è superata [aufgehoben] la contraddizione [Widerspruch] tra il dover-essere e la realtà del colpe17 18 Hegel 1907, 278; tr. it. 391. Hegel 1907, 278; tr. it. 391. 240 Venanzio Raspa vole, è superata l’eccezione che il colpevole voleva fare all’universalità della legge. Ma il colpevole non si è riconciliato con la legge (sia che questa sia per lui un essere estraneo [a], sia che sia soggettivamente presente in lui come cattiva coscienza [b])19. Dunque, la legge deve essere applicata. In tal caso, (ii.a) se la legge è qualcosa di estraneo al reo – come nel caso della giustizia positiva –, una volta che egli ha scontato la pena, essa lo lascia andare, ma si erge in un’attitudine minacciosa contro di lui, non gli è diventata amica; (ii.b) se invece la legge è «soggettivamente presente in lui come cattiva coscienza», il reo continua a vedersi come tale, ma ciò non cambia nulla e la realtà dell’azione compiuta permane in contraddizione con la sua coscienza della legge. Tuttavia, mentre nel primo caso non c’è soluzione, nel secondo qualcosa può ancora accadere. «L’uomo» – afferma Hegel – «non può sopportare questa angoscia; alla terribile realtà del male e dell’immutabilità della legge egli può sfuggire solo per grazia»20, una grazia che non può darsi da sé. Così il reo è spinto a «un atto disonesto», a richiedere la grazia: pur riconoscendo il proprio fallo, egli esprime il disonesto desiderio che gli venga usata bontà, che l’amministratore della giustizia chiuda un occhio e lo assolva dalla pena. Ma in questo modo – ribadisce Hegel – non si consegue alcuna conciliazione: Così, se la punizione dovesse esser considerata solo come un qualcosa di assoluto, se non sottostasse a nessuna condizione e non avesse nessun lato per cui essa e la sua condizione potessero essere subordinate ad una più alta sfera, non vi sarebbe allora nessun ritorno all’unità della coscienza per una via pura, nessun superamento della punizione, della minacciosità della legge e della cattiva coscienza, eccetto una disonesta supplica. Punizione e legge non possono conciliarsi ma possono essere tolte nella riconciliazione del destino [in der Versöhnung des Schicksals aufgehoben werden]21. In questo modo si apre uno spiraglio. Perché sia possibile una conciliazione che non comporti l’eliminazione della giustizia, è necessario – dice Hegel – elevarsi al di sopra della giustizia positiva, al 19 20 21 Hegel 1907, 278-279; tr. it. 391. Hegel 1907, 279; tr. it. 392. Hegel 1907, 279; tr. it. 392. Crimine, punizione, destino. Per un superamento della vendetta 241 livello del destino. Egli propone allora una duplice via al superamento della vendetta e della sua stessa possibilità. Poiché la vendetta è la riaffermazione di una situazione di separazione ritenuta indelebile, il suo superamento richiede o che sia eliminata oppure che sia evitata la separazione. La prima via riguarda il reo (l’assalitore), la seconda la vittima (l’assalito). 4.2. Il superamento della vendetta nel destino. – Per “destino” Hegel intende la reazione che il criminale, commettendo il delitto, ha sollevato nei propri confronti. Tuttavia, la punizione come destino si distingue fortemente dalla punizione derivante dalla trasgressione della legge: Nel destino la punizione è una forza ostile, un individuale in cui l’universale e il particolare sono uniti anche nel senso che il dovere e la sua realizzazione non sono separati come nella legge, la quale è solo una regola, un pensato, e ha bisogno perciò di un opposto, di un reale da cui trarre forza. In questa forza ostile l’universale inoltre non è separato dal particolare come la legge in quanto universale è opposta all’uomo o alle sue inclinazioni in quanto particolari. Il destino è solo il nemico e l’uomo gli sta ben di contro come forza che lo combatte22. Prima dell’atto – ha detto Hegel – non c’è separazione. Questa si è originata solo con l’atto, con l’allontanarsi dalla vita unica, con l’annientarla; nel trasformare la vita in nemica, si è creato qualcosa di estraneo. Il colpevole credeva di avere a che fare con una vita estranea, mentre in verità ha distrutto solo la propria, poiché la vita non è diversa dalla vita, poiché la vita è nell’unica divinità. […] È innanzitutto l’atto che ha creato una legge il cui dominio ora si avanza; questa legge è l’unificazione nel concetto dell’uguaglianza tra la vita violata, apparentemente estranea, e la vita stessa del colpevole che è incorso nella punizione. Ora primamente la vita violata si avanza come forza ostile contro il reo e lo maltratta come egli ha maltrattato. In tal modo la punizione come destino è la reazione, eguale all’azione del reo, di una forza che egli stesso ha armato, di un nemico che egli stesso si è fatto nemico23. 22 23 Hegel 1907, 280; tr. it 392-393. Hegel 1907, 280-281; tr. it. 393-394. 242 Venanzio Raspa Di primo acchito, una riconciliazione con il destino sembra essere più difficile che con la legge penale, in quanto essa esige che sia tolto l’annientamento. Rispetto alla legge, però, il destino – dice Hegel – ha il vantaggio di muoversi nell’ambito della vita, non di opposizioni insuperabili di realtà assolute. Nella punizione come destino la legge è riconosciuta come posteriore alla vita, ad essa sottomessa in quanto originantesi appunto dall’atto, quale reazione proporzionata all’azione; essa «è solo una lacuna di vita, una deficienza di vita che si presenta come forza»24. La vita, quindi, è in sé capace di sanare la separazione, togliere l’atto, la legge e la punizione. Quando il reo avverte la distruzione della propria vita (patisce la punizione) o si riconosce (nella cattiva coscienza) come distrutto, allora ha inizio l’effetto del destino: egli sente in sé una mancanza, sente di aver perduto qualcosa. Tale sentimento è timore della separazione, totalmente diverso dalla paura della pena, di qualcosa di estraneo. Esso suscita nostalgia per la vita perduta e con ciò produce già un miglioramento, al quale non può invece condurre la mera punizione, che è solo un patire. Inoltre, questa nostalgia è coscienziosa, stimola a ogni istante la cattiva coscienza e il sentimento del dolore a riunirsi con la vita. Attraverso l’espiazione della pena e la conseguente presa di coscienza, i colpevoli si sono accorti di ciò che hanno perduto e vi hanno riconosciuto la vita a loro divenuta ostile, dando così inizio al processo di riappropriazione che li porta a riconciliarsi con la vita. Infatti l’opposizione è la possibilità della riunificazione [die Entgegensetzung ist die Möglichkeit der Wiedervereinigung] e, di quanto nel dolore la vita era un opposto, di tanto vi è possibilità di riassumerla. La possibilità della riconciliazione col destino [Versöhnung des Schicksals] poggia sul fatto che anche l’elemento ostile è sentito come vita; questa riconciliazione non è dunque né la distruzione o la sottomissione di un elemento estraneo, né una contraddizione fra la coscienza che si ha di sé e la diversa rappresentazione di sé che si spera di trovare in un altro, né una contraddizione tra il merito di fronte la legge e il compimento di essa, fra l’uomo come concetto e l’uomo come reale. Questo sentimento della vita che ritrova se stessa è l’amore, ed in esso si riconcilia il destino25. 24 25 Hegel 1907, 281; tr. it. 394. Hegel 1907, 282-283; tr. it. 395-396. Crimine, punizione, destino. Per un superamento della vendetta 243 L’unificazione ha luogo fra un universale e un particolare, fra la legge e l’atto criminale, o fra la totalità (la vita) e il singolo (il reo). Questa conciliazione in tanto è possibile, in quanto sono presenti due condizioni, l’una ontologica, l’altra pratico-soggettiva: (a) che gli opposti (l’assalitore e l’assalito), quindi anche l’elemento ostile, non siano delle realtà assolute, nel qual caso non sarebbero unificabili, ma parti dell’unica totalità, della vita; (b) che il criminale prenda coscienza di aver violato, con la violazione di una vita altrui, sia la vita nella sua totalità, da cui si è separato, sia la propria, che egli espii quindi la colpa commessa, avverta la distruzione della propria vita come perdita o mancanza della vita a lui divenuta ostile, e desideri riconciliarsi con essa. L’amore è il principio unificatore che riconcilia il reo (il singolo) con la vita (la totalità). La soluzione prospettata aggira la questione giuridica, poiché – come riconosce anche Hegel – «l’amore non può essere comandato»26, né regolamentato da leggi. In effetti, non sempre l’espiazione della pena produce nel reo la presa di coscienza descritta da Hegel. La punizione è efficace solo se accompagnata da tale presa di coscienza, ma non se la separazione permane. Ritornerò alla fine sulle difficoltà della concezione hegeliana; intanto chiediamoci: come opera l’amore nel caso in cui l’unificazione non venga ricercata, ma, nel pieno della lotta, è la separazione ad essere affermata con forza? Di fronte alla violenza, artefice di separazione, in che modo l’amore può ricomporre l’unità? È in grado di operare un cambiamento reale, oppure agisce solo al livello delle coscienze? 4.3. L’esclusione della possibilità della vendetta nell’anima bella. – Esaminiamo ora la seconda via al superamento della vendetta. Il destino – scrive Hegel – si avanza anche contro la sublime delle colpe, la «colpa senza crimine», ovvero la «colpa dell’innocenza». Egli analizza dapprima una situazione di antagonismo reale. Un destino sembra sorgere solo in seguito a un’azione altrui, questa invece ne costituisce solo l’occasione; «ciò per cui il destino sorge è il modo come si accoglie l’azione altrui e vi si reagisce»27, e cioè con la lotta, a difesa del proprio diritto leso, oppure con la sottomissione e il dolore rassegnato che lo accompagna. Entrambi, sia la battaglia per il diritto sia il soffrire passivamente, sono situazioni innaturali, che contengono 26 27 Hegel 1907, 295-296; tr. it. 408-409. Hegel 1907, 284; tr. it. 397. 244 Venanzio Raspa una «contraddizione fra il concetto del diritto e la sua realtà»; entrambi significano sottomissione al destino. Chi lotta, in quanto scende con coraggio sul terreno della forza e si espone coscientemente al pericolo, si è già sottomesso al destino. Nella lotta vengono a trovarsi in contraddizione «due universali che si eliminerebbero l’un l’altro e che tuttavia sono»: il diritto dell’assalito e quello dell’assalitore. «Egualmente gli antagonisti sono opposti come due diversi esseri viventi, la vita è in lotta con la vita, il che forma di nuovo una contraddizione»28. Con l’autodifesa dell’assalito, l’assalitore è a sua volta attaccato e posto nel diritto di autodifendersi; allora, o la decisione del diritto viene lasciata alla forza, oppure ci si rimette a un giudice. In quest’ultimo caso, però, essi lascerebbero decidere di se stessi a un estraneo, a una legge, accettando così quel trattamento che inizialmente entrambi avevano rifiutato. Nella rassegnazione, che pure è sottomissione al destino, il dolore ad essa connesso «è la contraddizione tra il riconoscere il suo diritto e l’impotenza a conservarlo nella realtà»29. L’insorgere di un destino è coestensivo e contemporaneo al prodursi della separazione fra il singolo e il tutto, ossia fra l’uomo (il reo) e la vita; dell’opposizione fra un universale e un particolare, cioè fra la legge (la punizione) e il reo; e della contraddizione esistente fra opposti identici, fra due universali, il diritto dell’aggredito e quello dell’aggressore, oppure fra due particolari, vale a dire le rispettive vite dell’aggredito e dell’aggressore. Ora Hegel procede a un tentativo di riunificazione: principio unificatore degli opposti è l’amore, il contesto, nel quale l’unificazione viene realizzata e resa possibile, è la totalità della vita. La concretizzazione di tale unificazione, in cui gli opposti scompaiono, è l’anima bella. La verità dei due opposti [Das Wahre beider Entgegengesetzen], il coraggio e la passività, così si unifica [vereinigt sich] nella bellezza dell’anima, ché del primo rimane la vitalità ma scompare l’opposizione, dell’altra rimane la perdita del diritto ma sparisce il dolore. Sorge così un superamento [Aufhebung] del diritto senza sofferenza, una libera e viva elevazione [Erhebung] al di sopra della perdita del diritto e al di sopra della lotta30. 28 29 30 Hegel 1907, 284; tr. it. 397. Hegel 1907, 284; tr. it. 397. Hegel 1907, 285; tr. it. 398. Crimine, punizione, destino. Per un superamento della vendetta 245 Colui che rinuncia a ciò di cui l’altro vuole impadronirsi e non lo chiama più suo, evita il dolore, evita la lotta, ma, nel tentativo di conservarsi, si autoannulla. Di qui l’infelicità per questa autoeliminazione, che può ingrandire a tal punto da spingerlo verso la rinuncia alla vita. D’altra parte, «con l’opporre a se stesso il destino nella sua completa interezza, l’uomo si è elevato al contempo al di sopra di ogni destino; la vita è divenuta a lui infedele, non lui alla vita»31; piuttosto che inimicarsi la vita, egli le si sottrae. L’anima bella, incarnazione dell’amore in cui si riconcilia il destino, nel suo sottrarsi alla vita, al fine di evitare di sottostare al destino, esclude la possibilità del prodursi dell’opposizione, e quindi della stessa vendetta: non separandosi di sua iniziativa dalla vita, non infierendo su un’altra vita, non lottando per la difesa del proprio diritto, essa tiene fermo alla già sussistente unificazione. E tuttavia, è in questo suo ritrarsi dalla vita, nel tentativo di sottrarsi al destino – nel quale si potrebbe ravvisare un carattere riflessivo –, che l’anima bella si sottomette al suo inevitabile destino. Gesù, anima bella, desiderava che i suoi discepoli rinunziassero a tutto per non scendere a patti con il mondo e non giungere al punto da rendere possibile un destino; in un atto di libertà suprema – attributo negativo della bellezza dell’anima – si può rinunciare a tutto per conservare se stessi. Ma “chi vorrà salvare la sua vita, la perderà”. Ed infatti la suprema colpa può coincidere con la suprema innocenza, l’estremo e più infelice destino con l’elevazione al di sopra di ogni destino32. Nell’infelicità Hegel ha già individuato un carattere negativo dell’amore, tuttavia egli continua a illustrarne la capacità riconciliatrice e a tesserne l’elogio. Chi si è innalzato al di sopra dei rapporti di diritto, chi non ha nulla da perdonare al proprio offensore, costui è aperto alla riconciliazione, non nutre sentimenti ostili né ha verso l’altro pretese di restaurare diritti lesi; il suo animo si eleva al di sopra dell’opposizione legale e si riconcilia con l’offensore. La punizione della legge che scaturisce dall’«ira dell’onestà» è invece soltanto giusta: per suo tramite non è attuata alcuna riconciliazione, nessun ritorno alla vita. In una simile situazione domina la 31 32 Hegel 1907, 286; tr. it. 399. Hegel 1907, 286; tr. it. 399. 246 Venanzio Raspa legge del taglione, secondo cui «il colpevole subisce a sua volta gli stessi colpi che ha dato»33 e si legalizza quel che per altro verso si condanna. Si condannano tiranni e assassini, mentre si legalizzano carnefici e boia; questi ultimi fanno la medesima cosa dei primi, ma sono legalizzati nelle loro azioni. Ed ecco come Hegel, grazie a Spinoza34, propone di uscire dalla distretta: di fronte alla legge il colpevole non è altro che un colpevole; ma come quella, anche questo è solo un frammento della natura umana35; se la legge fosse un tutto, un assoluto, il colpevole non sarebbe nient’altro che un colpevole36. Al contrario, legge e diritto non provengono dall’esterno; ciò che è primo è l’uomo. Il peccatore è più che un peccato esistente: è un uomo, al quale è possibile tornare in se stesso, sottomettere delitto e destino, così che l’atto, pur continuando a sussistere, diviene passato, morto rottame. Fra peccato e punizione v’è un elemento estraneo, la legge, non fra peccato e remissione dei peccati: la vita, per mezzo dell’amore – che è amore della bellezza ed è bello nelle sue manifestazioni37 –, ritrova se stessa. In conclusione. Attraverso la non-resistenza, evitando la lotta, non raccogliendo il guanto di sfida, nell’anima bella è esclusa la possibilità stessa della vendetta. Ma, di nuovo, ciò accade non a livello giuridico, bensì intra- e intersoggettivo. L’amore non si pone come legge, come dominatore. Certo l’amore non può essere comandato, certo esso è «patologico», è un’inclinazione; ma con questo – scrive Hegel – non gli si è tolto nulla della sua grandezza; per il fatto che la sua essenza non abbia dominio su qualcosa ad esso estraneo non lo si è affatto degradato; con ciò anzi 33 Hegel 1907, 288; tr. it. 401. Su ciò cfr. Raspa 1997/98, 134-135. 35 Il termine “natura” – come spiega Peperzack (1960, 153-154, n. 3) – ricorre con diversi significati negli scritti francofortesi; a varie riprese indica anche la vita (cfr. Hegel 1907, 277 e 329-330; tr. it. 389 e 442- 444); solo nel Frammento di sistema del 1800 viene stabilita una differenza fra vita e natura. 36 Hegel 1907, 288; tr. it. 401. Il corsivo è mio. 37 I termini tedeschi per “bellezza” e “bello” ricorrono spessissimo nel testo hegeliano, tanto che l’intero brano (Hegel 1907, 285-293; tr. it. 398-406) può essere letto in chiave estetica. 34 Crimine, punizione, destino. Per un superamento della vendetta 247 è così poco subordinato al dovere e al diritto che il suo trionfo è piuttosto non dominare su nulla ed essere verso l’altro senza potenza ostile. […] La potenza dell’oggettivo è infranta solo nell’amore, poiché con l’amore viene a crollare il suo intero ambito; […]. Solo l’amore non ha limiti. Ciò che esso non ha unito non è per lui oggettivo; l’ha trascurato o non l’ha ancora sviluppato, ma non gli è opposto38. Nell’affermare la bontà dell’amore, Hegel ne evidenzia al contempo i limiti. Proprio in virtù del suo carattere di non-resistenza, quindi della sua disposizione a rinunciare coscientemente alla lotta e a ritrarsi dalla vita, così da sottrarsi al destino, l’amore si espone al suo ineluttabile destino. Pertanto, come altri concetti hegeliani, l’amore ha sì un’accezione positiva, quale unificazione di opposti, ma anche una negativa. Per questo l’amore non basta, e occorrerà cercare ancora. 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