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1. Premessa: una linguistica filosofica1
Gilles Deleuze e Félix Guattari non sono dei linguisti; non lo sono, perlomeno,
nel senso ordinario che il termine linguista assume nel linguaggio scientifico e nella geografia delle discipline. Solitamente, i loro nomi non compaiono neanche nel
campo delle ricerche semiotiche o di filosofia del linguaggio ‘puramente’ intese.
Tuttavia, pur lavorando essenzialmente da filosofi2, essi fanno largo uso di termini, categorie e strutture, che riprendono, direttamente o indirettamente, da apparati concettuali appartenenti alla linguistica o alla semiotica, tanto da permettere
ad alcuni critici3 di attribuire esplicitamente, ai due filosofi francesi, l’elaborazione
di una vera e propria teoria4 semiotica5.
*
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FTL
CLG
MP
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1979 Lingua intellettuali egemonia in Gramsci, Roma-Bari, Laterza.
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Saussure 2008
Deleuze, Guattari 2006
MARX, K.
2005 Manifesto del partito comunista, Roma-Bari,
Laterza.
1
Devo ringraziare, per la stesura del presente lavoro, il professor Gaetano Rametta dell’Università
di Padova, il cui supporto e le cui indicazioni sono stati fondamentali. Per quanto riguarda i contenuti, mi assumo, comunque, la più totale e completa responsabilità.
MAZZEO, M.
2009 Contraddizione e melanconia. Saggio sull’ambivalenza, Macerata, Quodlibet.
2
Ciò è sicuramente vero per quanto riguarda Deleuze che, infatti, si è sempre definito e ha
sempre lavorato come filosofo. Il discorso è, invece, un po’ più complicato per Guattari, psichiatra e psicoanalista oltre che filosofo. Si può, tuttavia, sostenere che i due autori considerano il
prodotto delle proprie collaborazioni come un prodotto essenzialmente filosofico.
3
Paolo Fabbri, ad esempio, ha riconosciuto a Deleuze una “altissima attenzione alla linguistica e alla
semiotica” e “una coscienza semiotica profonda, che comporta un’adeguata conoscenza delle due
grandi correnti semiotiche del novecento: quella relativa a Hjelmslev (autore che Deleuze chiama
“il cupo principe spinozista danese”) e quella relativa a Peirce, che Deleuze utilizzerà (a modo suo,
come al solito) per una rielaborazione dei segni in Bacon o nel cinema” (Fabbri 1998a: 112-113).
4
Utilizzo qui teoria in un senso radicalmente diverso da quello che Hjelmslev propone in FTL. La
teoria elaborata da Deleuze e Guattari, infatti, manca completamente e volutamente del requisito di arbitrarietà: “E la risposta per Deleuze è ovvia: no, risponde Deleuze, il linguaggio non
è arbitrario, per la ovvia considerazione che i segni linguistici hanno sempre a che fare con altri
segni, che sono segni naturali […] non c’è alcun tipo di realtà esterna ai segni, giacché i segni sono
costitutivi di oggetti e nominativi di eventi, e quindi sono essi stessi la realtà” (Fabbri 1998a: 114).
5
Cf. Bogue 2001 o il già citato articolo di Fabbri.
ORFANO, E.
2006 Osservazioni sul principio Grund/Folge e confronto con il principio di Causa/Effetto in Galassi,
Morandina, Zorzella 2006: 169-184.
RAMETTA, G.
1992 Filosofia come “sistema della scienza”, Schio,
Tamoni.
SAUSSURE, F. DE
2003 Corso di linguistica generale, Roma-Bari, Laterza.
141
Deleuze, Guattari e le macchine semiotiche
Simone Aurora
Assume allora un senso, e questo senso è precisamente quello che il presente
contributo vorrebbe avere, considerare il modo in cui Deleuze e Guattari lavorano
il materiale linguistico e semiotico che utilizzano, come essi lo pieghino alle loro
esigenze filosofiche, quali possibilità di pensiero apra la sua rielaborazione e quali
elementi di criticità invece comporti, nella speranza che la loro prospettiva di
outsider, sicuramente eccentrica e talvolta non aliena da intenti provocatori, non
porti solo a forzature arbitrarie e a risultati discutibili, ma possa invece produrre
elementi di rottura, di stimolo o di novità, anche all’interno di quelle discipline,
rispetto alle quali, il loro pensiero risulta decentrato.
Questo contributo non vuole essere, allora, un contributo di linguistica, semiotica o filosofia del linguaggio, ma vuole essere, invece, un contributo filosofico, in
direzione, però, di quella che Paolo Fabbri ha definito, in un suo intervento riguardante proprio la semiotica deleuziana (Fabbri 1998a), come linguistica filosofica: “una
filosofia che lavora cioè con altri mezzi, tra i quali anche quelli della linguistica e
della semiotica” (Id.: 111).
Sulla base di queste premesse, si analizzeranno alcuni elementi della linguistica filosofica proposta dai due autori, così come emergono dalle critiche, contenute in MP6,
che essi rivolgono ai quattro “postulati della linguistica” e che sono: 1) il linguaggio è
informativo e comunicativo, 2) esiste una macchina astratta della lingua, tale da non
ricorrere ad alcun fattore estrinseco, 3) esistono costanti o universali della lingua che
permettono di definirla come un sistema omogeneo, 4) è possibile studiare scientificamente la lingua soltanto nelle condizioni di una lingua maggiore o standard.
In questa sede, mi occuperò principalmente del primo dei quattro postulati.
2. Il linguaggio non è informativo e comunicativo
Vorrei partire da un rifiuto. Un rifiuto che potrebbe sorprendere e che presenta, certamente, elementi critici e aspetti problematici: è il rifiuto della distinzione
saussuriana7 tra langue e parole8, rifiuto che secondo Deleuze e Guattari segue
direttamente dalla negazione, da loro enunciata, della natura informativa e comunicativa del linguaggio. Tale distinzione sarebbe infatti “impossibile”,
6
Cf. in particolare le pagine 131-184.
7
“Deleuze and Guattari’s semiotics present a conceptual mix of Charles S. Peirce’s logic of relatives and Louis Hjelmslev’s linguistics; both frameworks are taken to oppose Saussurean semiology” (Parr 2005: 242).
8
Le critiche di Deleuze e Guattari sembrano rivolgersi, in realtà, più alla cosiddetta ‘vulgata saussuriana’ cha a Saussure stesso, tanto che si potrebbe dire di tale critica quanto Elia riferisce alla critica
di Saussure operata da Labov: “Esprimiamo qui, di passata, il rammarico che ci viene dal constatare
che questa critica non distingue tra ciò che realmente pensava Saussure e ciò che è stato diffuso
dalla vulgata saussuriana, dato che essa in effetti identifica ancora le due cose” (Elia 1978: 73).
142
poiché la parole9 non si può definire come la semplice utilizzazione individuale ed
estrinseca di una significazione primaria o l’applicazione variabile di una sintassi
preliminare: al contrario, sono il senso e la sintassi della langue che non si lasciano
più definire indipendentemente dagli atti di parola [actes de parole] che essa presuppone (MP: 134-135).
Da questa citazione, due elementi mi sembrano emergere in maniera tanto forte quanto problematica; il primo è l’identificazione della parole con l’atto linguistico, l’altro coincide invece con l’affermazione secondo cui la langue presuppone
la parole e non il contrario, ovvero che la sintassi e la semantica presuppongono la
pragmatica, tanto che diverrebbe impossibile “definire una semantica, una sintassi
o anche una fonematica, come zone scientifiche del linguaggio indipendenti dalla
pragmatica […]. La pragmatica diviene, al contrario, il presupposto di tutte le altre
dimensioni e s’insinua ovunque” (MP: 134).
Consideriamo il primo elemento. All’interno dell’orizzonte semantico saussuriano, infatti, la parole non coincide con l’atto linguistico, inteso in senso pragmatico, ma indica semplicemente l’atto fonico individuale, attraverso il quale il parlante utilizza il codice della lingua per esprimere un pensiero personale10. Deleuze
e Guattari, invece, assegnano ad ogni atto di parole, in senso saussuriano, cioè ad
ogni espressione linguistica di un enunciato, un carattere pragmatico che secondo
Saussure, invece, tale atto non possiede.
In questo senso, essi si collocano esplicitamente all’interno della prospettiva
delineata da Austin 1988, in particolare all’altezza del passaggio dalla diade ‘performativo\constativo’, attiva nella prima parte del testo, alla triade ‘locutivo\illocutivo\
perlocutivo’, operativa, invece, nella seconda11. In questo passaggio, infatti, si consuma lo scarto tra la limitazione dello statuto di atto linguistico a una classe ristretta
di enunciati particolari, la classe degli enunciati performativi, e la sua estensione,
invece, alla classe di tutti gli enunciati possibili12. “Tutti gli enunciati, oltre a signi9
A differenza del traduttore italiano, che traduce il francese parole con l’italiano “parola”, lascio i termini saussuriani langue e parole in francese, per evitare possibili confusioni ed eventuali ambiguità.
10
“La parole, al contrario, è un atto individuale di volontà e di intelligenza, nel quale conviene
distinguere: 1. le combinazioni con cui il soggetto parlante utilizza il codice della lingua in vista
dell’espressione del proprio pensiero personale; 2. il meccanismo psico-fisico che gli permette di
esternare tali combinazioni” (CLG: 24).
11
“Le note tesi di Austin mostrano chiaramente che, fra l’azione e la parola, non ci sono vari rapporti
estrinseci, tali che un enunciato può descrivere un’azione al modo indicativo oppure provocarla al
modo imperativo, ecc. Ci sono anche rapporti intrinseci fra la parole e certe azioni che possiamo
compiere per il semplice fatto di dirle (il performativo: giuro dicendo: ‘lo giuro’), e più in generale
fra la parola e certe azioni che si compiono parlando (l’illocutivo: interrogo dicendo ‘Est-ce
que…?’, prometto dicendo ‘Ti amo…’, comando usando l’imperativo, ecc.)” (MP: 134).
12
“La dicotomia tra performativi e constativi viene quindi rifiutata in favore di una teoria complessiva degli atti linguistici all’interno della quale le affermazioni (e, in generale, i constatati),
figurano come casi particolari” (Levinson 1985: 300).
143
Deleuze, Guattari e le macchine semiotiche
Simone Aurora
ficare quello che significano, eseguono quindi atti particolari (o ‘fanno qualcosa’)
perché hanno, come amava dire Austin, una forza specifica” (ibid). All’interno della
triade austiniana l’illocutivo assume, inoltre, un ruolo privilegiato, poiché da un lato
“Eseguire un atto locutorio è in generale, possiamo dire, anche eo ipso eseguire un
atto illocutorio” (Austin 1988: 74 ) e, d’altra parte, poiché il perlocutorio è la formulazione performativa dell’illocutorio, è l’esplicitazione dell’intenzionalità implicita
nell’illocutorio13. Anche in riferimento a questo elemento, il primato assegnato all’illocutivo, Deleuze e Guattari si collocano, senza la minima deviazione, nella traccia
segnata da Austin14.
Ciò che, invece, li differenzia è, da un lato, la radicalità con cui essi estendono
la sfera dell’illocutivo all’intera gamma dell’enunciabile, facendo, così, coincidere atto linguistico e atto illocutivo, laddove Austin è molto più cauto e non
esclude la possibilità di atti linguistici non riferibili all’illocutivo15, e, dall’altro,
la definizione della natura stessa dell’illocutivo, che per Austin si esprime in una
molteplicità di forme e di tipi16, mentre per Deleuze e Guattari rimanda sempre,
in ultima analisi, a relazioni di potere, a ‘obblighi sociali’, nella forma di ciò che
chiamano “parola d’ordine”17:
enunciato che non presenti questo legame, direttamente o indirettamente (MP: 136).
Ogni atto di parole, ogni enunciato, è un atto linguistico, e come tale rinvia
sempre a relazioni pragmatiche; queste relazioni, tuttavia, rimandano sempre a
strutture di potere, a rapporti d’obbligazione.
Su queste basi, diviene allora chiaro il senso dell’altro elemento che emergeva
dalla citazione proposta all’inizio di questo paragrafo, e cioè il privilegio che Deleuze e Guattari assegnano alla pragmatica, nonché la sua declinazione in senso
marcatamente politico: “la pragmatica”, affermano infatti, “è una politica della
lingua” (MP: 140). Se ogni enunciato rimanda sempre a ‘obblighi sociali’ presupposti, diviene allora primariamente importante lo studio di questi presupposti
sociali immanenti a ogni enunciato, l’analisi dei legami che il codice sottostante a
ogni atto di fonazione intrattiene con le condizioni sociali della sua esecuzione.
Laddove, nella linguistica saussuriana, veniva assegnato un privilegio18 allo
studio della langue19, per Deleuze e Guattari bisogna allora costruire – citando
ciò che Schlieben Lange proponeva come scopo della pragmalinguistica e che, a
mio avviso, può valere (almeno a questo livello del discorso) anche come intento
programmatico della ‘linguistica filosofica’ proposta da Deleuze e Guattari:
Chiamiamo parole d’ordine non una categoria particolare di enunciati espliciti (per
esempio all’imperativo), ma il rapporto di ogni parole o di ogni enunciato con presupposti impliciti, cioè con atti di parole che possono compiersi nell’enunciato e possono
compiersi solo in esso. Le parole d’ordine non rinviano dunque soltanto a comandi,
ma a tutti gli atti che sono legati ad un enunciato da un ‘obbligo sociale’. Non vi è
13
“L’atto perlocutorio corrisponde infine agli effetti ottenuti dall’atto illocutorio, alle conseguenze
psicologiche o comportamentali, intenzionali o meno” (Bianchi 2003: 65).
14
“Sicché il performativo stesso si spiega con l’illocutivo, e non l’inverso. È l’illocutivo che costituisce i presupposti impliciti e non discorsivi” (MP: 135).
15
“Diciamo chiaramente che l’espressione ‘uso del linguaggio’ può riferirsi ad altre questioni
ancora più disparate che gli atti illocutori e perlocutori e ovviamente del tutto diverse da tutte
quelle di cui ci stiamo occupando qui. Ad esempio, possiamo parlare dell’‘uso del linguaggio’ per
qualcosa, ad esempio per scherzare; e possiamo usare ‘in’ in un modo diverso dall’‘in’ illocutorio,
come quando diciamo ‘nel dire “p” stavo scherzando’ o ‘recitando una parte’ o ‘scrivendo poesia’” (Austin 1988: 77-78).
16
La classificazione più nota delle forme di illocutivo, di quelle che Austin chiama “forze illocutorie”, è quella proposta da Searle, che distingue: illocutivi rappresentativi, dichiarativi, espressivi,
direttivi, commissivi (cf. Searle 1979). Si potrebbe dire, probabilmente semplificando eccessivamente, che Deleuze e Guattari riconducono i diversi tipi di illocutivi a quelli direttivi.
17
In questo senso, Deleuze e Guattari sembrano seguire, radicalizzandone l’aspetto sociale,
l’impostazione di una disciplina che può essere letta come uno sviluppo della teoria degli atti linguistici austiniana, l’“etnografia della comunicazione”, che suggerisce come “nella assegnazione
della funzione [degli atti linguistici] sono però importanti non solo le attese relative agli scopi e
allo svolgimento di determinate azioni ma anche la conoscenza dei ruoli sociali dei partecipanti”
(Levinson 1985: 353).
144
una linguistica della ‘parole’20 intesa nel miglior senso possibile: non si deve trattare
cioè di porre l’ambito della ‘lingua’ come dato in modo primario e cercare solo
condizioni supplementari per il suo impiego, ma invece di indagare il parlare come
attività che crea nuovi piani di senso su cui mutare vecchie unità e modelli di azione
linguistica. Questa scienza del parlare dovrebbe infine avere come oggetto, in quanto attività, da una parte le condizioni universali della possibilità di comunicazione, e
dall’altra i tipi delle attività linguistiche (azioni, rapporti di azioni, tipi di testo) delle
singole lingue e società (Schlieben Lange 1980: 28).
Per sostenere l’inadeguatezza del privilegio assegnato, dalla linguistica saus18
“Mentre Saussure privilegiò piuttosto la langue sulla parole, alcuni studiosi come Coseriu, o intere
scuole di tradizione strutturalista, come il circolo linguistico di Mosca (tra il 1915 e il 1920) e
quello di Praga (fondato nel 1926) si occuparono anche della parole” (Bazzanella 2008: 104); “Per
Saussure, invece, l’elemento primario è quello sociale, la langue” (Graffi 2010: 218).
19
“Con l’accordare alla scienza della lingua il suo vero posto nell’insieme degli studi intorno al linguaggio, abbiamo al tempo stesso dato collocazione all’intera linguistica. Tutti gli altri elementi
del linguaggio, che costituiscono la parole, vengono spontaneamente a subordinarsi a questa
prima scienza, ed appunto grazie a tale subordinazione tutte le parti della linguistica trovano il
loro posto naturale” (CLG: 28); cf. anche p. 23: “Separando la lingua dalla parole, si separa a un
sol tempo: 1. ciò che è sociale da ciò che è individuale; 2. ciò che è essenziale da ciò che è accessorio e più o meno accidentale”, e p. 30: “A rigor di termini, il nome di linguistica può essere
conservato ad entrambe le discipline e si può parlare di una linguistica della parole. Ma bisognerà
non confonderla con la linguistica propriamente detta, quella il cui unico oggetto è la lingua”.
20
Anche qui, sostituisco il francese parole a “parola”.
145
Deleuze, Guattari e le macchine semiotiche
Simone Aurora
suriana, allo studio della langue, e per supportare, di conseguenza, le ragioni di
una ‘linguistica della parole’ e di uno studio delle variabili pragmatiche implicite
in ogni enunciato, Deleuze e Guattari rinviano a Labov e, in particolare, a ciò
che egli chiama “the saussurian paradox”21 e che recita così: “The social aspect
of language is studied by observing any one individual, but the individual aspect
only by observing language in its social context” (Labov 1972: 186)22. Se la langue
rappresenta l’oggetto dello studio del linguaggio dal punto di vista sociale, com’è
possibile fare astrazione dai rapporti sociali in cui il fatto linguistico si produce?
Il linguista dovrebbe studiare e determinare le regole e la struttura di una lingua
chiuso nel proprio ufficio, senza analizzare l’effettiva utilizzazione di questa lingua
all’interno di un dato contesto sociale. Ogni variazione dalla lingua standard, dalla
regola23, verrebbe allora considerata alla stregua di un errore o come elemento
esterno alla lingua stessa, benché funzionante in un concreto rapporto sociale.
Oggetto della linguistica sarebbe allora (secondo la linea che da Saussure conduce
fino a Chomsky)24 “an abstract, homogeneus speech community in which everyone speaks alike and learns the language instantly” (Labov 1972: 186). Ma questa
comunità, sostengono Labov e, sulla sua scia, Deleuze e Guattari, semplicemente
non esiste. La parole dovrebbe invece rappresentare l’oggetto di studio del linguaggio dal punto di vista individuale, ma per studiarla è, tuttavia, sempre necessario considerare un rapporto sociale, la circostanza effettiva della sua produzione:
Si definisce la lingua come ‘la parte sociale’ del linguaggio e si rimanda la parole
alle variazioni individuali. Ma, poiché la parte sociale è chiusa su di sé, ne consegue
necessariamente che un solo individuo potrà testimoniare di diritto per la lingua,
indipendentemente da ogni dato esterno, mentre la parole non potrà essere scoperta
che in un contesto sociale (MP: 177, n. 6).
21
“L’enunciazione di questo paradosso […] rappresenta, secondo noi, il momento culminante della
critica alla linguistica di tradizione saussuriana” (Elia 1978: 73).
22
Sul “paradosso saussuriano” cf. anche Labov 1977: 122 e sgg.
23
A questo proposito, Labov sostituisce il concetto di “regola variabile” alla nozione di ‘regola’
propria della grammatica generativa.
24
In particolare, la grammatica generativa rappresenta, com’è noto, l’obiettivo critico principale
dell’approccio sociolinguistico: “Mentre la prima andava alla ricerca di ciò che è invariabile nel
linguaggio […] la seconda, al contrario, era interessata alla variabilità, alle differenze, agli usi
concreti del linguaggio. Non è quindi un caso che, a partire dalla metà degli anni settanta, il
dialogo tra le due correnti si sia completamente interrotto” (Graffi 2010: 405). Cf. anche Labov
1977: 121-122: “Se studiamo le varie restrizioni imposte alla linguistica a partire da Saussure, osserviamo una progressiva esclusione dei dati, in un appassionato interesse per l’individuazione di
quello che non è linguistica: ogni campo di ricerca ha subito attacchi, prima o poi: la semantica, la
fonetica, i fattori sociali, e infine il linguaggio stesso. Il punto culminante di questo programma
puristico è la visione generativa della linguistica come studio di una struttura omogenea ideale,
che si manifesta nelle intuizioni dei più sofisticati membri della comunità, i quali creano mediante l’introspezione sia la teoria che i dati”.
146
Se la pragmatica, declinata per lo più in un senso, per quanto lato, politico, diviene il presupposto di ogni considerazione linguistica, e ogni atto linguistico, ogni
enunciato, rinvia a relazioni di potere, ne deriva conseguentemente che per Deleuze
e Guattari il linguaggio non può essere informativo né comunicativo25, ma espressivo, invece, di obblighi sociali, di comandi, di “parole d’ordine”, che sono il contenuto ultimo di quei presupposti sociali impliciti che la pragmatica deve analizzare26.
Si tratta allora di capire: 1) se il rifiuto della distinzione saussuriana, affermato
su queste basi, sia, all’interno di questa prospettiva, in primo luogo sostenibile e,
in secondo luogo, utile; 2) in che senso la parola d’ordine sia “l’unità elementare
del linguaggio” e ogni relazione pragmatica rimandi a relazioni di potere, in che
senso, cioè, il linguaggio sia fatto “per obbedire e per fare obbedire” (Id.: 131).
3. Concatenamento collettivo d’enunciazione, discorso indiretto e macchine
semiotiche
Sulla base di quanto detto fin qui, credo si sia reso evidente che il rifiuto della distinzione saussuriana, benché professato programmaticamente da Deleuze
e Guattari, rimanga una mera dichiarazione d’intenti e non trovi una compiuta
espressione. Se, infatti, si trattasse solo di costruire una ‘linguistica della parole’, nella
forma di una ‘pragmatica politica’, come scienza dei presupposti sociali impliciti che
sottendono la lingua, l’operazione di Deleuze e Guattari comporterebbe un semplice rovesciamento della prospettiva saussuriana, di cui manterrebbe però intatto
il modello27. Laddove, infatti, i due autori sostengono che “sono il senso e la sintassi
della lingua che non si lasciano più definire indipendentemente dagli atti di parole
che essa presuppone” (MP: 134-135), è evidente che la dicotomia langue-parole non
viene eliminata e che, al contrario, nel rapporto di presupposizione instaurato tra
i due termini, essa viene anzi confermata. Se l’operazione di Deleuze e Guattari
consistesse, d’altra parte, nella semplice constatazione che, nel linguaggio, langue e
parole stanno in un rapporto che lega inscindibilmente l’una all’altra, e divengono,
in questo senso, indistinguibili, lungi dall’essere ‘oltre’ il modello saussuriano, essi vi
rimarrebbero completamente all’interno28. La tesi dell’impossibilità della distinzione
25
“Il linguaggio non è informativo né comunicativo, non è comunicazione di informazione, ma –
cosa molto diversa – trasmissione di parole d’ordine, sia da un enunciato all’altro, sia all’interno
di ogni enunciato, in quanto un certo enunciato compie un atto e in quanto l’atto si compie
nell’enunciato” (MP: 136).
26
“La linguistica non può esistere al di fuori della pragmatica (semiotica o politica) che definisce
l’effettuazione della condizione del linguaggio e l’uso degli elementi della lingua” (Id.: 144).
27
E in questo senso, la proposta di Deleuze e Guattari produrrebbe esiti molto simili, se non
identici, a quelli prodotti da diverse correnti linguistiche post-saussuriane, volte a riconsiderare
la gerarchia langue-parole in direzione di quest’ultima, senza presentare, rispetto ad esse, scarti
apprezzabili. Su questo cf. Graffi 2010.
28
“Senza dubbio, i due oggetti sono strettamente legati e si presuppongono a vicenda: la lingua è
147
Deleuze, Guattari e le macchine semiotiche
Simone Aurora
langue-parole sarebbe, dunque, insostenibile e, in questo senso, inutile.
Per sostenere questa tesi, Deleuze e Guattari sono dunque costretti a introdurre un altro elemento, che permetta di superare sia la prospettiva di una semplice
‘linguistica della parole’, sia l’affermazione della primarietà dell’atto linguistico,
affermazione che, come abbiamo visto, manterrebbe la distinzione saussuriana,
seppur declinata in modo opposto: la langue presupporrebbe la parole.
Questo elemento è rappresentato dalla nozione di “concatenamento collettivo
d’enunciazione”29, che si oppone tanto all’idea di un ‘soggetto d’enunciazione’,
quanto a quella di una ‘enunciazione individuale’. “Non esiste enunciazione
individuale e neppure soggetto d’enunciazione […]. Il carattere sociale dell’enunciazione è intrinsecamente fondato soltanto se si riesce a mostrare come l’enunciazione rinvii di per sé a concatenamenti collettivi” (Id.: 137). Un concatenamento
collettivo d’enunciazione è ciò che esprime il rapporto tra i presupposti impliciti
di un enunciato, l’illocutivo, e l’enunciato stesso che, all’interno di questi presupposti viene espresso, l’atto di parole in senso saussuriano. “È l’illocutivo che costituisce i presupposti impliciti o non discorsivi. E l’illocutivo, a sua volta, si spiega
con i concatenamenti collettivi d’enunciazione” (Id.: 135). Un concatenamento
collettivo d’enunciazione si definisce, dunque, come “il complesso ridondante
dell’atto e dell’enunciato che necessariamente lo compie” (Id.: 137); è ciò che
concatena gli elementi sistemici di una data lingua e le condizioni extralinguistiche in cui questi elementi astratti divengono concreti. L’enunciazione individuale
lascia il posto a una enunciazione collettiva; ogni atto di parole, lungi dall’essere
individuale, è, invece, intrinsecamente sociale, essendo infatti il risultato del
concatenamento tra elementi collettivi, impersonali e indisponibili al parlante:
le costanti fonologiche, sintattiche e semantiche di una lingua, da una parte, e
le condizioni extralinguistiche in cui queste costanti producono atti di parole,
dall’altra30. In questo senso la distinzione langue-parole sembrerebbe superata; non
necessaria perché la parole sia intelligibile e produca tutti i suoi effetti; ma la parole è indispensabile perché la lingua si stabilisca; storicamente, il fatto di parole precede sempre […]. V’è dunque
interdipendenza tra la lingua e la parole; la prima è nello stesso tempo lo strumento e il prodotto
della seconda” (CLG: 29).
29
“La nozione di concatenamento collettivo d’enunciazione diviene allora fondamentale, poiché
chiamata a rendere conto del carattere sociale” (MP: 137).
30
La nozione di concatenamento collettivo d’enunciazione è avvicinabile, credo, alla nozione pragmatica di ‘evento linguistico’, a patto che si sottolinei come nel concetto di concatenamento non
si tratti mai di fatti linguistici isolati, ma sempre di un intreccio plurale e variabile di eventi –
al plurale – socialmente condizionati e collettivamente prodotti. Tuttavia, tanto la nozione di
‘evento linguistico’, quanto quella di concatenamento collettivo d’enunciazione, tentano di pensare i
processi di enunciazione come fenomeni intrinsecamente sociali, con stratificazioni che implicano piani diversi, livelli disparati, ambiti eterogenei: “Con evento linguistico si intende un evento
– di interesse non solo linguistico ma più latamente antropologico – nel quale centrale è l’attività
linguistica dei partecipanti […]. I diversi componenti dell’evento comunicativo forniscono una
griglia descrittiva utile a evidenziare le relazioni fra l’attività comunicativa di tipo linguistico e
altre attività sociali culturalmente determinate di una comunità. Consente quindi la descrizione
148
si tratta, cioè, di designare l’una o l’altra come il vero oggetto della linguistica,
ma di studiare i concatenamenti collettivi d’enunciazione in cui, tanto la langue
quanto la parole, rientrano31.
“Il concatenamento si definisce come rapporto tra corpi e segni” (Id.: 164). È
allora necessario chiarire in che senso Deleuze e Guattari intendano il segno e la
semiotica. Il segno, infatti, non si esaurisce sul piano della sua articolazione linguistica, come nel modello saussuriano, in cui il segno è l’unione di un significante e
del suo corrispondente significato ed è, di conseguenza, tutto interno alla lingua32,
ma coincide con la totalità del reale; il segno eccede il dominio del linguaggio:
Ogni segno è traduzione di altri segni e – soprattutto – i segni rinviano sempre ai
segni; insomma: non c’è alcun tipo di realtà esterna ai segni, giacché i segni sono costitutivi di oggetti e nominativi di eventi, e quindi sono essi stessi la realtà. Ogni modifica
dei corpi sui corpi, in quanto effetto, è segno-affetto; allora non esiste alcun problema di
realtà esterna dato che l’evento reale, l’effetto-affetto, è segno (Fabbri 1998a: 114).
La concezione del segno elaborata da Deleuze e Guattari è guadagnata attraverso
la lettura di Hjelmslev33 e, in particolare, della distinzione, nel segno, o meglio, nella
funzione segnica, di un piano dell’espressione e di un piano del contenuto:
Se, in una prospettiva tradizionale, il segno, esteriore alle cose stesse, non può che
limitarsi a rappresentarle dall’esterno, nella concezione che Deleuze e Guattari
derivano da Hjelmslev le cose stesse si identificano senza residui con ciò che potremmo ancora chiamare “segno” solo privando questo termine della sua connodella variazione transculturale del comportamento linguistico e l’interpretazione dei legami fra
l’uso del linguaggio e altri componenti culturalmente condizionati” (Andorno 2005: 132-133).
31
“Una certa espressione o un regime di segni non parlerà delle cose, come se queste fossero il suo
oggetto trascendente, il suo significato o il suo referente esterno, ma parlerà nelle cose stesse”
(Godani 2009: 171).
32
“Segno è l’unione di un significante e del suo corrispondente significato […]. Nella lettura del
Corso di linguistica generale di Saussure, quando si parla di segno, quindi, ci si riferisce a un’unità
di lingua non di parole; la lingua, a sua volta, può essere definita come un sistema di segni”
(Prampolini 2004: 58-59).
33
“Per Deleuze [Hjelmslev] è essenziale perché rompe definitivamente con la distinzione
psicologistica saussuriana tra significante e significato, sostituendo a essa la ripartizione tra materia, sostanza e forma in relazione sia all’espressione sia al contenuto […]. Se non si ha chiara
quest’impostazione hjelmsleviana dell’opera di Deleuze […] non si capisce per esempio tutta la
polemica di Deleuze e Guattari contro la semiologia a favore della semiotica, contro la linguistica
a favore della glossematica, contro un certo tipo di rappresentazione concettuale (referenzialista
e psicologista) a favore di un altro tipo di rappresentazione concettuale (immanentista e molecolare)” (Id.: 115-116). Su questo cf. anche Fabbri 1998b. Tuttavia, come ho già accennato, credo
che, nel complesso, i due programmi, quello hjelmsleviano di una teoria del linguaggio, e quello
di Deleuze e Guattari di una “pragmatica semiotico-politica”, non potrebbero essere più distanti.
149
Deleuze, Guattari e le macchine semiotiche
Simone Aurora
tazione rappresentativa […]. La conseguenza decisiva che è possibile trarre da un
tale rinnovamento della linguistica o, meglio, da questo passaggio che trasforma la
linguistica in semiotica generale, è – come si accennava – la sostanziale indiscernibilità di espressione e contenuto (Godani 2009: 171).
Ogni cosa, affermano Deleuze e Guattari, è segno in quanto rimanda ad altro,
rinvia al concatenamento collettivo che l’ha prodotta, all’insieme dei presupposti
impliciti che le assegnano una figura determinata, tanto che “il reale non si dà mai
al di fuori dei segni che lo descrivono, così come non si danno segni che non siano
in presa diretta sulla realtà, cioè che non siano in loro stessi qualcosa di reale”
(ibid.). Il concatenamento collettivo definisce così un ‘regime di segni’ eterogenei,
dove per segni intendiamo tutti gli elementi, linguistici34 e non, che in un dato
concatenamento costituiscono la serie dei rimandi reciproci e stabiliscono la griglia dei rapporti che intrattengono35.
Un concatenamanento collettivo di segni linguistici è ciò che Deleuze e Guattari
chiamano concatenamento collettivo d’enunciazione e che si manifesta esplicitamente nel
modello sintattico del discorso indiretto libero, tanto che questo diviene, seguendo
esplicitamente le indicazioni di Bachtin, “un problema di principio e di enorme importanza per la linguistica generale” (Vološinov, Bachtin 1999: 241):
Il concatenamento collettivo di enunciazione non ha altri enunciati se non quelli di
un discorso sempre indiretto. Il discorso indiretto è la presenza dell’enunciato riportato nell’enunciato che lo riporta, la presenza della parola d’ordine nella parola. Il
linguaggio intero è discorso indiretto. Il discorso diretto è un frammento di massa
staccato36, sorto dallo smembramento del concatenamento collettivo37 (MP: 142).
34
35
“La lingua non è mai un sistema omogeneo, e non contiene sistemi di questo tipo. La linguistica,
che sia quella di Jakobson o quella di Chomsky, crede a questi sistemi perché non potrebbe darsi
senza di essi. Ma non esistono. Una lingua è sempre un sistema eterogeneo o, come direbbero
i fisici, un sistema lontano dall’equilibrio” (Deleuze 2010: 161). In questo senso, la contrapposizione tra questa concezione della lingua e della linguistica e la concezione hjelmsleviana
non potrebbe essere più netta, benché il linguista danese venga spesso assunto (e spesso, a mio
avviso, indebitamente) dai due autori, per altri motivi, come un modello. Su questo cf. FTL: 8:
“La linguistica deve cercare di cogliere la lingua, non come un conglomerato di fenomeni non
linguistici (per esempio, fisici, fisiologici, psicologici, logici, sociologici), ma come una totalità
autosufficiente, una struttura sui generis”.
“Yet semiotics cannot be reduced to just linguistic signs. There are extra-linguistic semiotic
categories too, such as memories, images, or immaterial artistic signs […]. Analogously, a formal
abstract machine exceeds its application to (Chomskian) philosophy of language; instead semiotics is applied to psychological, biological, social, technological, aesthetic and incorporeal codings” (Parr 2005: 243).
36
“Per Deleuze, come per Hjelmslev, la materia non è un insieme caotico di elementi e di tratti;
ma è qualcosa che diventa sostanza solo in quanto formata” (Fabbri 1998a: 117).
37
Cf. Vološinov, Bachtin 1999: 243 (di cui il passo citato di MP costituisce una parafrasi): “Il ‘discorso altrui’ è discorso nel discorso, enunciazione nell’enunciazione, ma al contempo anche discorso sul
150
Il discorso indiretto assume una tale importanza, tanto da coincidere per Deleuze e Guattari con il linguaggio stesso, perché testimonia della natura intrinsecamente sociale di ogni enunciato. È in questo senso che il riferimento a Bachtin
diviene fondamentale38. Bachtin sottolinea, infatti, come nell’analisi del discorso
indiretto non si tratti di indagare i “processi psicologico-soggettivi casuali e
accidentali ‘nell’anima’ di colui che percepisce” (Vološinov, Bachtin 1999: 245),
di studiare cioè i modi con i quali un soggetto intenda il discorso altrui, come lo
accolga nella propria coscienza39, come ne elabori i contenuti e sviluppi autonomamente, su queste basi, un pensiero individuale, enunciabile e comunicabile a
un altro soggetto, che lo può, a sua volta, riportare come ‘discorso altrui’; si tratta,
invece, di mettere in luce le “tendenze sociali stabili della percezione attiva del
discorso altrui che si sono cristallizzate nelle forme della lingua” (Id.: 245). Nel
discorso indiretto così inteso e, dunque, secondo quanto affermano Deleuze e
Guattari, nel linguaggio tout court, ciò che è importante non è allora la comunicazione che s’instaura tra i soggetti parlanti, bensì l’espressione delle coordinate
sociali che producono tanto le condizioni d’enunciazione quanto i soggetti attivi
nell’enunciazione:
Il meccanismo di questo processo non è nell’anima individuale ma nella società, che
seleziona e grammaticalizza (cioè adatta alla struttura grammaticale della lingua)
solo quei momenti della percezione valutativa attiva dell’enunciazione altrui che
sono socialmente essenziali e costanti e, di conseguenza, fondati sull’esistenza economica stessa del dato collettivo di parlanti (Vološinov, Bachtin 1999: 245).
La semiotica diviene allora lo studio dei concatenamenti collettivi e in questo
modo coincide con una “scienza descrittiva della realtà”40. Un insieme di concatenadiscorso, enunciazione sull’enunciazione”.
38
“In realtà l’atto verbale o, più precisamente, il suo prodotto – l’enunciazione – non può affatto venire inteso come fenomeno individuale nel senso proprio del termine, né può essere spiegato a partire dalle condizioni psicologiche o psico-fisiche individuali dell’organismo parlante. L’enunciazione
è sociale” (Vološinov, Bachtin 1999: 203). Cf. anche Holquist 1986: 195: “In altri termini, non si
tratta tanto del linguaggio ‘in sé’ (qualunque esso sia), e del suo controllo sulle relazioni soggettooggetto che sono le più immediate modellatrici dell’espressione; a plasmare il linguaggio è piuttosto una miriade di forze sociali, la cui azione è più larga del semplice conflitto di classe”.
39
“La coscienza individuale non può spiegare qui alcunché: essa stessa, al contrario, necessita di
una spiegazione che derivi dall’ambiente ideologico-sociale. La coscienza individuale è un fatto
socio-ideologico” (Id.: 125).
40
“In Immagine-tempo, secondo volume della sua immensa ricerca sul cinema, Deleuze parla
della semiotica come di una ‘scienza descrittiva della realtà’ […]. Ovviamente, Deleuze non sta
pensando qui alla tradizionale semiologia generale come studio dei segni verbali e non verbali;
sta pensando semmai a una specie di ‘trans-semiotica’ come attività costante di traduzione: per
Deleuze i concetti non esistono di per sé ma solo in traduzione con altri concetti; allo stesso
modo, i segni e gli autori non esistono di per sé, ma solo in traduzione con altri segni e con altri
151
Deleuze, Guattari e le macchine semiotiche
Simone Aurora
menti collettivi costituisce ciò che Deleuze e Guattari chiamano ‘regime di segni’ o
‘macchina semiotica’, “a configuration of forces that shape, legitimate and stabilize
the pragmatic variables internal to language” (Bogue 2001: 83). Il concetto di ‘macchina semiotica’ si contrappone al concetto saussuriano di sistema (o di struttura).
Benché anche questi definiscano, in apparenza come il concatenamento di Deleuze
e Guattari, un insieme di entità definite dalle loro relazioni reciproche41, tali relazioni sono tuttavia costanti, invariabili, e di conseguenza il sistema o la struttura mostrano sempre la tendenza a permanere stabili (non a caso una concezione di questo
tipo mostra difficoltà a spiegare il cambiamento linguistico). Le macchine semiotiche mostrano invece una struttura aperta, definita da variabili pragmatiche, nella
quale il ruolo e la funzione dei segni cambia, nella misura in cui cambiano le relazioni sociali e i presupposti impliciti che ad essi stanno dietro. Una macchina semiotica
mostra certamente una stabilità, ma una stabilità sempre e comunque provvisoria,
un equilibrio precario, in opposizione alla fissità della struttura. “Progressivamente,
nella riflessione comune di Deleuze e Guattari, il concetto di macchina tenderà ad
assorbire e, infine, a sostituire la nozione di ‘struttura’”(Godani 2009: 23)42.
La macchina semiotica produce sempre un ‘ordine semiotico’ che, per quanto
variabile, delinea una cartografia delle corrispondenze tra i segni, determina il
codice di traduzione da un segno a un altro segno e, in questo modo, distribuisce
le coordinate semiotiche che individuano gli elementi che la compongono. La
macchina semiotica della lingua si manifesta, in questo senso, nella produzione di
autori” (Fabbri 1998a: 112).
41
42
Questa impostazione saussuriana conosce, com’è noto, la sua elaborazione più estrema e radicale in Hjelmslev e, in particolare, nella sua concezione della struttura. Cf. FTL: 26-27: “In altri
termini gli oggetti si possono descrivere solo con l’aiuto delle dipendenze, e questo è l’unico
modo per definirli e coglierli scientificamente […]. Il riconoscimento del fatto che una totalità
non consiste di cose ma di rapporti, e che non la sostanza, ma solo i suoi rapporti interni ed
esterni hanno esistenza scientifica, non è ovviamente una novità nella scienza, ma può essere una
novità nella scienza linguistica […]. In realtà nella scienza linguistica ci si è venuti di recente
avvicinando a certe intuizioni che, una volta approfondite, non possono non condurre a questa
concezione. A partire da Ferdinand de Saussure si è spesso affermato che c’è un’interdipendenza
fra certi elementi della lingua, tale che una lingua non può avere uno di questi elementi senza
avere anche l’altro […]. Tutto indica che Saussure, che cercava ‘rapports’ dappertutto, e sosteneva che la lingua è una forma e non una sostanza, riconobbe la priorità delle dipendenze del
linguaggio”. Si tratta cioè, secondo Hjelmslev, di assumere e approfondire l’idea saussuriana dandole una rigorosa sistemazione scientifica, eliminando ogni assunzione ‘metafisica’ e superflua,
da un lato, e raffinando l’analisi delle dipendenze, dall’altro. In sostituzione ai rapporti e alle dipendenze saussuriane, Hjelmslev introduce, allora, uno schema delle possibili dipendenze e una
nuova terminologia per designarle; egli distingue, quindi, “interdipendenze”, “determinazioni” e
“costellazioni” (lo schema prevede poi altre designazioni, a seconda che tali dipendenze entrino
in un processo o in un sistema). Sulla nozione di struttura in Hjelmslev cf. anche Graffi 1974.
Il passo citato continua così: “Le analisi di L’anti-Edipo e di Mille piani avranno il compito di
mostrare come l’inconscio, le lingue e le società siano appunto macchine che si compongono e si
disfano continuamente, sistemi caratterizzati dal presentarsi di un’infinita varietà e variabilità di
concatenamenti, piuttosto che da un numero limitato di relazioni e invarianti”.
152
enunciati-parole d’ordine, che presuppongono e trasmettono l’ordine e la disposizione del regime di segni che esprimono. “Non c’è significanza indipendente
dalle significazioni dominanti, non c’è soggettivazione indipendente da un ordine
costituito di assoggettamento. Ambedue dipendono dalla natura e dalla trasmissione delle parole d’ordine in un determinato campo sociale” (MP: 137). Parlare
significa, così, sempre trasmettere quest’ordine, confermarlo e giustificarlo43. “Una
regola di grammatica è un contrassegno di potere, prima di essere un contrassegno
sintattico” (MP: 132). Si trasmette sempre la quantità di informazione minima necessaria a determinare il tipo di ordine, a rendere comprensibile cosa bisogna fare,
come bisogna parlare. Non si comunica mai solamente per informare. “Si comunica
soltanto la quantità minima d’informazione necessaria all’emissione, trasmissione
e osservazione degli ordini in quanto comandi” (ibid). È importante sottolineare
ancora una volta che Deleuze e Guattari attribuiscono valore di comando ad ogni
enunciato e non solo ad un gruppo ristretto; anche una domanda o una promessa
sono comandi, parole d’ordine. I due autori prendono come esempio il sistema
dell’istruzione: in una scuola i bambini imparano, attraverso enunciati provenienti
da un ‘centro di potere’, in questo caso l’insegnante, le coordinate che li inseriscono in una determinata macchina semiotica; imparano cosa è giusto e cosa è
sbagliato, cosa è bello e cosa è brutto, cosa è normale e cosa non lo è ; ai bambini
viene così assegnata una posizione, dalla quale esercitano un determinato ruolo
all’interno del sistema, del regime di segni che li governa, della macchina semiotica
di cui fanno parte44.
4. Conclusioni
L’idea di semiotica proposta da Deleuze e Guattari, così come emerge
all’altezza della nozione di ‘macchina semiotica’, sembra non essere così distante
dall’idea di semiotica sviluppata da Hjelmslev e che Cosimo Caputo riassume così:
La semiotica mette a fuoco problemi di ordine economico, sociale, assiologico,
tematizza cioè la genesi del senso, svolgendo una funzione di disoccultamento e di
demistificazione. E qui viene fuori il legame con le sue sporgenze, eccedenze, e si
avvia un lavoro ai margini, lungo i punti di contatto e di intersezione, lavoro che
43
“Language is a mode of action that is fundamentally social, a coding that imposes power relations” (Bogue 2001: 82).
44
Per un’analisi dettagliata delle relazioni di potere interne all’organizzazione del sistema della
formazione cf. Foucault 1993, ad esempio a pagina 160: “L’organizzazione di uno spazio seriale
fu una delle grandi mutazioni tecniche dell’insegnamento elementare: esso permise di superare
il sistema tradizionale […]. Assegnati dei posti individuali, rese possibile il controllo di ciascuno
ed il lavoro simultaneo di tutti; organizzò una nuova economia dei tempi di apprendimento; fece
funzionare lo spazio scolare come una macchina per apprendere ma anche per sorvegliare, gerarchizzare, ricompensare”.
153
Deleuze, Guattari e le macchine semiotiche
Simone Aurora
Michail Bachtin45 chiama “metalinguistica” (Caputo 2001: 74).
Tuttavia, sembrerebbe imporsi un elemento ambiguo nel percorso che si è
cercato di tracciare fin qui. Abbiamo, infatti, affermato la differenza incomponibile tra la concezione del linguaggio elaborata da Hjelmslev e quella proposta da
Deleuze e Guattari, mentre nelle righe appena sopra abbiamo, invece, sostenuto
la possibilità di un avvicinamento delle due prospettive a livello delle caratterizzazioni che in esse assume la semiotica. Per chiarire questo punto, è bene considerare, brevemente, il procedimento con il quale Hjelmslev si accosta allo studio
del linguaggio. In primo luogo, egli procede a circoscrivere l’ambito dell’oggetto
studiato, la lingua naturale, in secondo luogo ne organizza lo studio secondo un
fine puramente immanente che impone di “cercare una costanza che non sia ancorata a una qualche realtà fuori del linguaggio, ma che sia quel che fa di una lingua
una lingua (di qualunque lingua si tratti), e che fa una lingua particolare identica
a sé stessa in tutte le sue varie manifestazioni” (FTL: 10-11); infine, una volta costituita, su queste basi, la teoria del linguaggio, e tenendo la lingua come “punto
centrale di riferimento”, “la si potrà proiettare sulla realtà fuori della lingua (di
qualunque realtà ‘si tratti’: fisica, fisiologica, psicologica, logica, ontologica)”
(ibid.), e in questo modo procedere all’elaborazione di una semiotica generale, per
come l’abbiamo definita all’inizio del paragrafo46. In un primo momento, dunque,
Hjelmslev opera per deduzione, mentre
Il secondo momento della sua costruzione scientifica vede la sintesi o induzione che
ricolloca la sua teoria nel processo storico e culturale del suo tempo. Si parte dal
concreto [il linguaggio] per ritornare al concreto [la semiotica generale] dopo averlo
idealizzato (approfondito o astratto) [la teoria linguistica] (Caputo 1986: 131).
In questo senso, nel confluire della teoria del linguaggio in una semiotica
45
46
Cf. MP: 177, n. 9: “In due modi diversi Bachtin e Labov hanno insistito sul carattere sociale
dell’enunciazione. Così essi non si oppongono soltanto al soggettivismo, ma allo strutturalismo,
nella misura in cui quest’ultimo rimanda il sistema della lingua alla comprensione di un individuo
ideale e i fattori sociali agli individui empirici in quanto parlano”.
“In partenza la teoria linguistica è stata costituita in maniera immanente, mirando solo alla
costanza, al sistema, e alla funzione interna, a spese, apparentemente, delle fluttuazioni e delle
sfumature, della vita e della realtà concreta fisica e fenomenologica. Tale temporanea limitazione
del punto di vista è stata il prezzo che si è dovuto pagare per strappare alla lingua il suo segreto.
Ma appunto grazie a tale punto di vista immanente la lingua ci ha ripagato delle limitazioni che
ci aveva imposto: essa ha assunto una posizione centrale nella conoscenza, in un senso superiore
a quello in cui ciò poteva essere accaduto nella linguistica fino ad oggi […]. La teoria linguistica
arriva per necessità interna a riconoscere non solo il sistema linguistico, nel suo schema e nel
suo uso, nella sua totalità e nella sua individualità, ma anche l’uomo e la società umana dietro la
lingua, e tutta la sfera delle conoscenze umane attraverso la lingua” (Id.: 135-136).
154
generale o semiotica del non verbale47, Hjelmslev supera il verbocentrismo di cui
potrebbe essere accusato, sulle basi di una sua lettura superficiale o parziale:
Il percorso hjelmsleviano muove dalla linguistica all’epistemologia, alla semiologia.
Il verbocentrismo sembra qui una prospettiva molto lontana e solo rimanendo
ancorati alla concezione tradizionale del linguaggio si può muovere questa accusa
(Caputo 1986: 64).
È proprio su questo punto che è possibile provare a chiarire l’apparente ambiguità della lettura hjelmsleviana di Deleuze e Guattari. I due autori francesi,
infatti, riconoscono a Hjelmslev di aver posto le condizioni per il superamento del
verbocentrismo, e di avere anzi praticato questo superamento all’altezza della sua
elaborazione semiotica, ma di averlo tuttavia conservato, nel privilegio assegnato,
seppur come istanza epistemologica, alle lingue naturali da un lato, e nella concezione della distinzione espressione-contenuto secondo il modello significantesignificato, dall’altro48.
La concezione semiotica di Hjelmslev si avvicina, dunque, a ciò che Deleuze e
Guattari chiamano ‘macchina semiotica’, ma sconta, secondo loro, un duplice errore; da un lato, Hjelmslev giunge a definire la semiotica generale sulla base della
teoria linguistica e, in questo modo, plasma la prima sul modello della seconda
riproponendo, così, il verbocentrismo che si voleva superare e impedendo, di conseguenza, la costruzione di una semiotica generale indipendente dalla linguistica;
dall’altro, Deleuze e Guattari contestano la limitazione con la quale Hjelmslev
intraprende la propria analisi del linguaggio, limitazione che circoscrive e isola il
linguaggio rispetto agli elementi non linguistici che esso contiene49.
Si può dunque affermare che, seppur contestando il programma hjelmsleviano
di una ‘teoria del linguaggio’, Deleuze e Guattari riconoscano, negli esiti semiotici
del lavoro del linguista danese, le condizioni per la costruzione di una semiotica
generale in consonanza con il concetto di ‘macchina semiotica’; tuttavia, nella loro
lettura, Hjelmslev non giunge al fondo di quest’impresa (che però è la loro), perché
rimarrebbe ancorato alla linguistica e non coglierebbe, così, il carattere intrinseca47
“Queste riflessioni metodologiche mostrano come il fatto che Hjelmslev non porti oltre le lingue
naturali la sua analisi non è affatto pregiudizievole per l’utilizzazione della sua teoria ai fini di
una costruzione di una teoria semiotica del non-verbale. Anzi proprio la sua riflessione sul linguaggio verbale spinge verso una semiotica generale” (Id.: 64).
48
“La forza di Hjelmslev è di aver concepito la forma d’espressione e la forma di contenuto come
due variabili del tutto relative, su uno stesso piano, come ‘i funtivi di una stessa funzione’. Questa
avanzata verso una concezione diagrammatica del linguaggio è tuttavia ostacolata per il fatto che
Hjelmslev concepisce ancora la distinzione dell’espressione e del contenuto secondo il modello
significante-significato, e mantiene così la dipendenza della macchina astratta dalla linguistica”
(MP: 180, n. 18).
49
“Ma questa obiezione ci sembra diretta soltanto contro la condizione restrittiva posta da
Hjelmslev” (Id.: 183, n. 39).
155
Deleuze, Guattari e le macchine semiotiche
Simone Aurora
mente sociale del linguaggio. Ciò che Deleuze e Guattari contestano a Hjelmslev è
il processo di astrazione e di limitazione con cui egli dà inizio alle sue analisi; Il linguaggio non è mai isolabile, sostengono infatti i due filosofi, dai presupposti sociali
impliciti che lo determinano e dalle condizioni che lo sottendono, pena la perdita
del suo carattere sociale. Il linguaggio, affermano invece Deleuze e Guattari, deve
essere indagato nel concreto del concatenamento collettivo d’enunciazione in cui
si esprime, non nell’astrazione di un sistema formale. Nella prospettiva delineata
da Deleuze e Guattari, non è, di conseguenza, possibile dire che la lingua “è una
semiotica nella quale ogni altra semiotica, cioè ogni altra lingua e ogni altra struttura semiotica concepibile, può essere tradotta” (FTL: 117), poiché non esiste una
lingua astratta, indipendente dai fattori eterogenei con cui si intreccia, dai presupposti impliciti che la sottendono; è vero, invece, che ogni lingua e ogni semiotica
rinviano a concatenamenti collettivi che configurano delle macchine semiotiche,
e che ogni semiotica e ogni lingua possono essere tradotti e si traducono sempre
in questi concatenamenti collettivi50: “la linguistica non può esistere”, allora, “al di
fuori della pragmatica (semiotica o politica) che definisce l’effettuazione della condizione del linguaggio e l’uso degli elementi della lingua” (MP: 144).
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