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La filosofia di fronte ai limiti della vita: i problemi della bioetica Rosangela Barcaro e Paolo Becchi [versione ridotta di un saggio pubblicato in: S. Mele, La ricerca del sapere. 3. Da Schopenhauer alla filosofia contemporanea, Messina-Firenze, Casa Editrice G. D’Anna, 2011, pp. 643-660] “Bioetica” è un neologismo composto di due vocaboli greci – bios ed ēthikē – e letteralmente significa “etica della vita”. La bioetica è una disciplina nata circa tre decenni orsono sulla scia delle problematiche etiche emergenti dalla scoperta ed utilizzo di nuove tecnologie, applicabili in settori quali la medicina e l’ambiente. Secondo il pensatore statunitense Daniel Callahan (nato nel 1930), pioniere degli studi bioetici, è una impresa difficile riuscire a fornire una definizione unanimemente condivisa del vocabolo “bioetica”: ancora oggi il termine è impiegato per indicare più ambiti di riflessione: innanzitutto il settore di indagine nato dall’incontro di etica e scienze della vita, poi la disciplina accademica ormai parte dei piani di studio di numerose università; a ciò si aggiungano l’ambito politico che si interessa alla medicina e all’ambiente e la più ampia prospettiva culturale nella quale rivestono un importante ruolo ad esempio gli studi storico-sociali, l’economia, la letteratura, la religione (Bioethics, 2004, p. 278). Questa molteplicità di significati secondo Callahan è la realtà odierna della bioetica. Se cerchiamo di ripercorrere la storia della parola “bioetica” scopriamo che essa è stata coniata dall’oncologo statunitense Van R. Potter (1911-2001), il quale la usò per la prima volta in un articolo pubblicato nel 1970 (Bioethics: the science of survival). Ad esso seguì nel 1971 un’opera (Bioethics. A bridge to the future), nella quale nella quale la bioetica sarebbe dovuta servire a costituire un ponte tra scienze sperimentali e scienze umane, con l’obiettivo di garantire la sopravvivenza dell’uomo sul pianeta e di promuovere un cambiamento culturale che consentisse all’uomo di affrontare i mutamenti e le derive che, soprattutto nei Paesi occidentali, il progresso scientifico e tecnologico (scoperta dell’energia nucleare, sfruttamento incontrollato dell’ambiente, mutamenti climatici globali, ecc.) aveva indotto sia nella biosfera sia nella vita organica. La connotazione proposta da Potter non aveva necessariamente legami con la medicina; dal suo punto di vista la bioetica doveva essere biocentrica, nel senso che avrebbe dovuto riguardare la sopravvivenza della vita sulla terra, sia che essa fosse umana, animale o vegetale. Ben presto tuttavia la parola “bioetica” iniziò ad essere impiegata in modo pressoché esclusivo per designare una branca dell’etica medica (Walters, Bioethics as a field of ethics, 1978). Questo nuovo taglio semantico è frutto di una scelta che ha visto concentrare l’attenzione degli studiosi esclusivamente sulle questioni etiche emergenti dalla pratica della medicina, e ha portato a concepire un modello di bioetica ispirato all’antropocentrismo, che è però incapace di accogliere le molteplici istanze morali emergenti dall’animalismo e dall’ambientalismo. Questo accento antropocentrico si rileva in un’altra definizione di bioetica, ampiamente diffusa e citata in letteratura, quella contenuta nella Encyclopedia of Bioethics, un’opera monumentale che dalla sua prima pubblicazione nel 1978 ha oggi raggiunto la sua terza edizione riveduta ed ampliata. Nella prima edizione dell’Encyclopedia la bioetica fu definita come studio sistematico della condotta umana, nell’ambito delle scienze della vita e della salute, esaminata alla luce di valori e principi morali (Reich, Introduction, Encyclopedia of Bioethics, 1978, p. XIX). Rispetto alla definizione contenuta nella prima edizione della Encyclopedia, nell’edizione del 1995 (e successivamente ribadita nella terza edizione del 2003) la definizione di bioetica viene aggiornata ed articolata per includere nello studio sistematico delle dimensioni morali delle scienze della vita e della salute, la visione morale, le decisioni, la condotta e le politiche in prospettiva interdisciplinare (Post, Introduction, Encyclopedia of Bioethics, 2003, p. XI). Come si può notare in questa seconda concezione è stato dato risalto alla natura interdisciplinare dell’impresa bioetica e sono state poste in rilievo nuove realtà che nel corso di circa un decennio hanno modellato la bioetica come 2 disciplina: si tratta del riconoscimento dell’esistenza di politiche ed interventi legislativi che si sono affacciati sulla scena pubblica insieme al fiorire di teorie etiche differenti tra loro, ma tutte impegnate a chiarire il significato di ciò che è bene o male. Anche nel nostro Paese la bioetica ha ottenuto attenzione e spazi accademici ed ha seguito un percorso “evolutivo” estremamente peculiare. Da un esame della principale letteratura italiana osserviamo come, ad esempio, il filosofo del diritto Uberto Scarpelli (1924-1993) ritenga che la bioetica sia l’etica “relativa ai fenomeni della vita organica, del corpo, dello sviluppo, maturità e vecchiaia, della salute, della malattia e della morte” (Scarpelli, La bioetica. Alla ricerca dei principi, p. 7); in modo analogo, ma da una prospettiva completamente diversa, per Elio Sgreccia (nato nel 1928), fondatore del Centro di Bioetica presso l’Università Cattolica del S. Cuore di Roma, la bioetica è “quella parte della filosofia morale che considera la liceità o meno degli interventi sulla vita dell’uomo e, particolarmente, di quegli interventi connessi con la pratica e lo sviluppo delle scienze mediche e biologiche” (Sgreccia, Manuale di bioetica, 1988, p. 49). Quelle ora citate sono due definizioni di bioetica che fanno capo ad altrettante connotazioni che questa disciplina ha assunto nel nostro Paese: laica e cattolica (come avremo modo di discutere in modo più approfondito nel successivo §1). Tra le peculiarità della bioetica è stata poc’anzi menzionata l’interdisciplinarità, a significare che non esiste un esclusivo ed esaustivo discorso etico-filosofico o teologico sulle sfide morali poste dalle nuove scoperte scientifico-tecnologiche: all’indagine bioetica è fondamentale l’apporto di altre discipline, quali la biologia, la medicina in generale, la giurisprudenza, l’economia, per citarne soltanto alcune. L’interdisciplinarità si giustifica pienamente alla luce della natura delle questioni morali stesse: come può il filosofo o il teologo stabilire la liceità morale di certi interventi (farmacologici o chirurgici ad esempio) se non sa in che cosa essi consistono, quali procedure comportano, quali possono essere gli effetti positivi e negativi dalle quali tali procedure sono accompagnate? E più specificamente se e come possono essere 3 regolamentati sotto il profilo giuridico gli accessi a determinate procedure, e come possono essere eventualmente finanziate, se con denaro privato o pubblico? Come è facilmente intuibile questi interrogativi si collocano in un contesto più ampio di quello etico-filosofico ed in parte saranno affrontati nell’ultima parte di questo capitolo dedicata al biodiritto. 1. Bioetica laica e bioetica cattolica La disciplina bioetica in Italia ha assunto due differenti connotazioni,quelle della bioetica laica e della bioetica cattolica, plasmate dall’accoglimento di due differenti principi, rispettivamente quelli della qualità e della sacralità della vita. In Italia la bioetica è giunta sulla scia dei dibattiti che si svolgevano all’estero; ma con una peculiarità. Nel nostro Paese la riflessione sui temi dell’etica della vita risulta articolata attorno a “due grandi modelli teorici, i quali si ispirano a due concezioni generali del mondo e a due distinte filosofie” (Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, 200, p. 15): si tratta della bioetica di matrice religiosa, e specificatamente cattolica, sostenitrice del principio della sacralità della vita (sanctity of life), e della bioetica di matrice laica, portatrice del valore della qualità della vita (quality of life). Ma vediamo subito in cosa consiste specificamente la distinzione. Con “bioetica cattolica” si intende una riflessione elaborata a partire dagli insegnamenti della Chiesa Cattolica. Per la dottrina cattolica la vita umana è un bene fondamentale, prerequisito per l’esistenza della persona e dono divino. Poiché la vita umana proviene da Dio l’uomo non può disporne a piacimento. Questo spiega perché dal principio di sacralità della vita umana viene dedotto quello della sua indisponibilità. Il bene “vita” è sottratto al possesso e alla scelta individuale, il che – si badi – non comporta che il credente non possa sacrificare la propria vita per un bene superiore, per esempio per amore verso il prossimo. Si legge infatti nell’enciclica Veritatis splendor di Giovanni Paolo II: “mentre è sempre moralmente illecito uccidere un essere umano innocente, può essere lecito, lodevole o persino doveroso dare la propria vita (cf. Gv. 15, 13) per amore del 4 prossimo o per testimonianza verso la verità” (Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, § 50). Da queste premesse teologiche consegue, sotto il profilo bioetico, che gli interventi chirurgici e le terapie farmacologiche sono moralmente leciti se operano in vista del ripristino della salute e quindi della conservazione della vita umana; atti come l’aborto o l’eutanasia perseguono uno scopo contrario alla finalità per la quale la vita è stata creata e sono dunque sempre moralmente illeciti. “Bioetica laica”, dal versante opposto, è una locuzione impiegata per indicare una serie di argomentazioni che prescindono dall’ipotesi teologica dell’esistenza di Dio. Essa può essere intesa in senso forte o debole. In quest’ultimo senso ci si riferisce ad un atteggiamento critico e antidogmatico, ispirato al pluralismo, alla libertà e alla tolleranza. Quando si parla di bioetica laica in senso forte invece si asserisce implicitamente il rifiuto della metafisica e delle premesse religiose della bioetica cattolica. In entrambi i sensi si ritiene, tuttavia, fondamentale il richiamo alla dimensione umana della morale, elaborato cioè dall’uomo, il quale stabilisce le norme morali e decide ciò che è lecito fare indipendentemente dal credere o meno all’esistenza di Dio. Dalla prospettiva della bioetica laica saranno considerate moralmente lecite quelle azioni che sono finalizzate a migliorare, oggettivamente e soggettivamente, la qualità della vita umana. L’esempio della riproduzione assistita può essere d’aiuto per esplicitare meglio quanto ora affermato. Dal punto di vista della coppia che vive con il desiderio frustrato di generare un figlio, il disagio personale, psicologico ed esistenziale intacca la qualità della loro vita, mentre la soddisfazione del loro desiderio contribuirebbe al contrario a migliorarla in modi che soltanto la presenza di un figlio rende possibili. In genere questi due orientamenti, bioetica laica e bioetica cattolica, sono presenti in forma alternativa e reciprocamente escludentisi, ossia abbracciando il primo, il secondo dovrebbe essere rigettato e viceversa: questo contribuisce, in Italia, alla situazione paradossale per cui si discute tanto su temi bioetici senza peraltro arrivare quasi mai a conclusioni eticamente condivise. Eppure come si cercherà di mostrare non sempre posizioni laiche e posizioni ispirate 5 religiosamente si oppongono: possono pure darsi, infatti, posizioni laiche che accettano un concetto di “sacralità secolarizzata” e posizioni religiose che almeno in certi casi non contestano il principio della qualità della vita. Lo vedremo ora, soffermandoci in particolare sui temi più scottanti della bioetica medica. 2. La bioetica e la ricerca scientifica all’inizio della vita La ricerca scientifica applicata alla medicina ha interesse in un particolare “oggetto” di indagine: l’essere umano. L’impiego di cellule staminali estratte da embrioni e la procreazione medicalmente assistita sono interventi sull’essere umano sin alle sue prime fasi di vita e sollevano quesiti bioetici di estrema complessità. Iniziamo da un’osservazione che riguarda, più in generale, il tema della scienza, o meglio l’intreccio tra conoscenze scientifiche e decisioni morali. La scienza ha sempre perseguito una precisa finalità, il raggiungimento della conoscenza nelle sue diverse articolazioni (pensiamo alle scienze naturali, fisica, chimica, biologia); il metodo scientifico basato sull’osservazione, la formulazione di ipotesi e teorie e il confronto di queste ultime, mediante l’esperimento, con i fatti con Galileo Galilei (1564-1642) è divenuto garanzia che le asserzioni dello scienziato si fondano su riscontri empirici capaci di spiegare i fenomeni che caratterizzano la realtà. La ricerca scientifica, generalmente si pensa, deve essere libera di perseguire le proprie finalità, con i mezzi che gli scienziati ritengono appropriati: la scienza deve mirare ad accertare dei fatti, indipendentemente dal modo in cui essi possono essere valutati. Tuttavia questa concezione è divenuta oggetto di un ripensamento complessivo soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento quando gli scienziati hanno raggiunto la consapevolezza che alcune scoperte potevano avere ricadute importanti sul piano politico, sociale ed etico. Già Robert Oppenheimer (1904-1967) dopo Hiroshima disse che lo scienziato aveva commesso un peccato e probabilmente pensava anzitutto a se stesso, al contributo che egli da fisico nucleare aveva dato alla messa a punto della bomba atomica. L’impresa 6 scientifico-tecnologica non può più essere weberianamente considerata neutrale “rispetto ai valori” (wertfrei), perché la scienza “pura” e disinteressata, che persegue finalità meramente conoscitive, non esiste più, o esiste sempre meno (Jonas, Tecnica, medicina ed etica, 1997). Si pensi, ad esempio, alle tecniche dell’ingegneria genetica che consentono di ottenere microorganismi, piante ed animali geneticamente modificati, trasferendo geni da una specie all’altra e creando in tal modo soggetti transgenici. L’obbiettivo della ricerca è sin dall’inizio pratico: mira, cioè, non più alla conoscenza teorica, ma alla produzione di quelle stesse entità che intendiamo conoscere. Oppure può presentarsi anche il caso che lo scienziato, per raggiungere alcune conoscenze utili, sia persino costretto a distruggere l’oggetto su cui sperimenta. E con ciò entriamo già nei temi della bioetica medica. Si pensi al problema della sperimentazione sulle cellule staminali embrionali: è un fatto, per la verità ancora da accertare scientificamente, che tali cellule possano contribuire a debellare alcune malattie e a salvare la vita a pazienti che oggi muoiono di sclerosi laterale amiotrofica o del morbo di Alzheimer, mentre sappiamo con certezza che gli embrioni saranno comunque distrutti dopo il prelievo di cellule staminali. Quanti si appellano al principio della sacralità della vita, considerano moralmente illecita la sperimentazione sugli embrioni, e rifiutano qualsiasi intervento che procuri il loro impiego e distruzione, ritenuta un omicidio a tutti gli effetti. Addurre motivazioni connesse alla libertà di ricerca o a – presumibili – terapie salvavita a beneficio dell’umanità non giustifica, per coloro che sostengono questa posizione, l’uccisione di un essere umano ed un embrione è comunque già un essere umano. Di parere opposto sono invece quanti assumono a principio guida la qualità della vita: la possibilità di garantire benefici terapeutici futuri a pazienti che oggi sono destinati a spegnersi nella sofferenza e nel dolore rende giustificabile anche la creazione a scopo di ricerca di embrioni umani e la loro successiva distruzione. Come si vede le posizioni appaiono perfettamente speculari eppure al di là di tale opposizione tutti dovrebbero interrogarsi sul fatto che la vita non possa essere manipolata a piacimento, anche per fini del tutto nobili, come la cura di 7 alcune malattie. La stessa riflessione può essere estesa alla procreazione medicalmente assistita: anche qualora si ammetta (e difficilmente si può contestarlo) che è giusto venire incontro al desiderio di una coppia di avere un figlio, può spingersi questo desiderio sino al punto di autorizzare la soppressione di embrioni soprannumerari, quali “prodotti di scarto” della procreazione assistita? Qui un’etica che tenesse conto soltanto della qualità della vita dei genitori che vogliono avere un figlio rappresenterebbe una forma di egoismo difficilmente giustificabile. Accanto a questi temi trovano spazio anche riflessioni sulle tecniche diagnostiche reimpianto, che possono indurre ad una selezione degli embrioni per eliminare, insieme all’embrione, le eventuali patologie dalle quali esso può essere affetto (Franco, Bioetica e procreazione assistita, 2005). Sotto il profilo sociale al tentativo di garantire ai genitori la nascita di un figlio sano è sotteso un rischio: quello del rifiuto di quelle persone che sono nate, vivono e quotidianamente affrontano il loro handicap. 3. Alcune questioni di fine vita: eutanasia e trapianto degli organi Uno dei temi sul quale maggiormente si è dibattuto in Italia è quello dell’eutanasia attiva. Esso è stato presentato come una contrapposizione ineliminabile tra i principi di qualità e sacralità della vita. Si ritiene invece risolta la questione del trapianto degli organi, sulla quale dovrebbe essere riaperto il dibattito, soprattutto in relazione alle procedure per il reperimento degli organi. Il desiderio di un malato inguaribile, con ridotta aspettativa di vita, di sottrarsi ad una morte vissuta nel dolore e nella sofferenza non alleviabili (o solo parzialmente alleviabili) dalla medicina è un elemento molto forte che connota il dibattito sull’eutanasia attiva volontaria (Dworkin, Frey, Bok, Eutanasia e suicidio assistito, 2001). Alla fine della vita, può talvolta accadere che l’impegno per la salvaguardia della vita del paziente, in nome della sua sacralità, possa trasformarsi in un insieme di misure ed interventi invasivi privi di reale efficacia terapeutica, la cui messa in atto procrastina soltanto l’exitus, a caro prezzo della qualità della sua 8 vita. In tali situazioni la richiesta, volontaria e motivata, rivolta al medico di essere aiutati a morire mediante una iniezione letale (è questo il caso classico dell’eutanasia attiva volontaria) diventa un dilemma etico, sia per il paziente che non trova altre soluzioni che anticipare la propria morte, sia per il medico, il quale – ottemperando alla richiesta rivoltagli dal paziente – si troverebbe ad agire in nome non della salvaguardia della vita ma per procurare direttamente la morte. Proviamo ora a rileggere la discussione sulla liceità dell’eutanasia alla luce dei principi di sacralità e di qualità della vita. In modo analogo a quanto si è detto per il caso della procreazione medicalmente assistita, secondo il principio della sacralità della vita umana, ogni intervento che ponga volontariamente fine alla vita umana è da ritenersi moralmente illecito, mentre può essere concesso uno spazio – più o meno ampio – alla richiesta del paziente di essere aiutato a morire se la questione viene letta nell’ottica della qualità della vita. Il dibattito sull’eutanasia ruota essenzialmente attorno all’idea secondo cui l’essere umano può (o non può) decidere di disporre della propria vita nei modi e nei tempi che egli ritiene adatti a conferire significato alla propria esistenza. Se per un momento restiamo fermi alla distinzione sopra menzionata tra quanti accolgono la tesi della sacralità della vita umana e quanti invece propendono per la sua qualità, si avranno due posizioni di segno opposto a seconda che si accetti la prima tesi o la seconda. In altre parole, quanti ritengono che la vita umana è sacra, rifiutano qualsiasi pratica eutanasica, mentre quanti sostengono che l’individuo abbia il diritto di concludere la propria vita quando non ci sia alcuna possibilità di guarire malattie come il cancro o l’AIDS, e di eliminare la sofferenza che le accompagnano, ritengono moralmente lecita l’eutanasia attiva volontaria. Per questo orientamento scegliere il modo ed il momento di morire costituiscono una possibilità dell’individuo. Se nel primo caso ogni dibattito sulle eventuali misure legislative da adottare potrà essere impostato in termini di proibizione degli interventi finalizzati a concludere la vita di un paziente terminale ancorché ne abbia fatto egli stesso esplicita e ripetuta richiesta, nel secondo caso si ragiona sulla adozione di lineeguida che tutelino i pazienti e limitino il rischio di abusi della pratica eutanasia 9 considerata comunque lecita. Ma siamo proprio sicuri che anche in questo caso non si possa uscire dalla dicotomia sacralità/qualità della vita? Che si scelga di seguire il primo orientamento oppure il secondo, una serie di problemi sono destinati a rimanere irrisolti. Coloro che insistono sulla qualità della vita del paziente e chiedono di autorizzare per legge l’intervento del medico volto a porre fine a quella vita dimenticano che se il medico praticasse un intervento eutanasico attivo entrerebbe in contrasto con i principi della sua etica professionale, che da sempre, dal giuramento di Ippocrate, implica il divieto di somministrare al paziente dei farmaci letali. Coloro che invece insistono sulla sacralità della vita dimenticano che nelle ultime fasi della malattia terminale il paziente può chiedere di morire perché ritiene in tal modo di salvaguardare anzitutto la sua dignità, impedendo che la morte sia differita nel tempo attraverso tutti i mezzi di cui oggi la medicina dispone. È difficile uscire da questa impasse, ma per certo non è seguendo la rigida alternativa tra sacralità e qualità della vita che saremo in grado di farlo, bensì puntando su un principio, quello della dignità umana, che potrebbe superare la dicotomia oggi ancora imperante. E non è forse un caso che proprio al tema della dignità facciano ricorso tanto coloro i quali si richiamano alla sacralità quanto coloro che si richiamano alla qualità della vita. Sul tema del trapianto di organi da soggetti in stato di morte cerebrale invece il consenso sembra universale e chi vorrebbe riaprire la discussione rompe un tabù, con tutte le conseguenze che questo comporta (Scaraffia, I segni della morte. A quarant’anni dal rapporto di Harvard). Per chiarire questo punto bisogna tuttavia almeno accennare alla nuova definizione della morte in termini neurologici che da circa quaranta anni si è imposta in medicina. Prima si riteneva che la morte fosse la cessazione totale ed irreversibile di ogni funzione vitale dell’organismo e che questa fosse attestata dall’arresto cardiocircolatorio e dall’assenza di respiro. Con lo sviluppo delle tecniche rianimatorie, nel corso degli anni Sessanta, ci si trovò di fronte alla possibilità di tenere in vita pazienti in condizioni disperate, che prima sarebbero sicuramente morti, garantendo artificialmente la respirazione e di conseguenza la continuazione del battito 10 cardiaco. Ma se da un lato le tecniche rianimatorie potevano consentire di salvare la vita di alcuni pazienti, dall’altro altri pazienti non uscivano più dallo stato di coma: il cuore continuava a battere, ma il cervello era irrimediabilmente danneggiato. Una Commissione, formata prevalentemente (ma non esclusivamente) da medici dell’Università di Harvard, venne incaricata di studiare la questione e nell’agosto del 1968 giunse a presentare una relazione finale nella quale veniva affermato che pazienti, i quali si trovassero in quella condizione di coma irreversibile, in realtà, non erano più pazienti, ma cadaveri. Con una sola mossa venivano in apparenza risolte due difficoltà: veniva infatti autorizzata la sospensione della ventilazione assistita non per consentire al paziente di morire, ma perché già morto e dal momento che era già morto lo si poteva dopo tre minuti di sospensione della ventilazione artificiale nuovamente riattaccare al respiratore per consentire il prelievo degli organi nelle condizioni ottimali. Una soluzione, in apparenza, brillante, che sembrava metter d’accordo tutti (o quasi), senza alcuna distinzione, ad esempio, fra i sostenitori della sacralità della vita o della qualità, dal momento che le operazioni di prelievo avvenivano comunque da soggetti preventivamente dichiarati deceduti. Ora, se sullo staccare il respiratore in quelle condizioni si poteva essere effettivamente d’accordo, sul riattaccarlo il consenso non era per nulla pacifico. Ma nonostante l’immediata opposizione di Hans Jonas (1903-1993; Jonas, Morte cerebrale e banca di organi umani, 2004) quel consenso durò almeno fino agli anni Novanta quando alcuni studiosi sulla base di accurate osservazioni cliniche cominciarono a sottoporre a critiche severe quella definizione di morte in termini cerebrali. Oggi il dibattito è aperto e molti sostengono la necessità di andare oltre quella definizione di morte, cercando di trovare giustificazioni etiche al prelievo degli organi, che non passino però attraverso una ridefinizione della morte in termini neurologici (Becchi, Morte cerebrale e trapianto di organi. Una questione di etica giuridica, 2008; Barcaro, Becchi, Donadoni, Prospettive bioetiche di fine vita. La morte cerebrale e il trapianto di organi, 2008). 11 4. La bioetica ambientalista e la bioetica animalista La critica all’antropocentrismo mette in evidenza l’importanza di estendere la considerazione etica e giuridica oltre la sfera degli esseri umani, per includere l’ambiente e le specie viventi. Sono presentate le principali visioni teoriche di studiosi che operano nell’ambito della bioetica ambientalista ed animalista. Anche se la bioetica medica ha assunto un grande rilievo si sbaglierebbe nel ritenere che la bioetica sia in fondo esclusivamente riconducibile a questo ambito. Vi sono altri due settori importanti sui quali bisogna soffermarsi e che sono accomunati dal voler estendere la considerazione etica e giuridica al di là degli esseri umani. Nell’ambito di questa discussione si possono tracciare almeno due linee di tendenza, che partendo da una medesima critica, la critica del principio antropocentrico, la svolgono ad esiti diversi. Per un verso assistiamo al tentativo di delineare i paradigmi di una nuova etica, che non ha più al suo centro l’uomo e neppure l’uomo con le altre specie animali. Per altro verso assistiamo al tentativo di estendere teorie etiche e giuridiche che tradizionalmente venivano riferite al soggetto umano, ad altri soggetti, gli animali, aventi con il primo soggetto una somiglianza ritenuta rilevante: la capacità di provare dolore. Per il primo orientamento si tratta di elaborare un’etica radicalmente biocentrica; per il secondo invece l’obiettivo è quello di ripensare le categorie tradizionali dell’etica in un’ottica interspecifica, capace cioè di estendere il suo campo di applicazione anche agli animali. In breve: da una parte “ambientalismo”, dall’altra “animalismo”. Converrà quindi soffermarsi un po’ più da vicino sulla bioetica ambientalista e su quella animalista. All’interno della prima sono presenti anche posizioni di antropocentrismo illuminato, come ad esempio quella rappresentata da John Passmore (1914-2004) (Passmore, Man’s responsability for nature: ecological problems and western traditions, 1980), che intendono difendere la natura senza per questo attribuire ad essa un valore intrinseco; ma l’etica ambientalista presenta pure diverse posizioni biocentriche a partire da quella “etica della terra” elaborata in senso olistico da 12 Aldo Leopold (1887-1948) (Leopold, A Sand County Almanac and Sketches here and there, 1949) già nell’immediato secondo dopoguerra, sino a quella sviluppata in senso individualistico da Paul Taylor (nato nel 1923) nel suo libro Respect for Nature. In questo contesto vale altresì la pena di ricordare che per distinguere questi diversi orientamenti il filosofo norvegese Arne Naess (1912-2009) contrappose la deep ecology, da lui sostenuta, alla shallow ecology (Naess, Ecology, community, and lifestyle: outline of an ecosophy, 1989). Molteplici critiche sono state rivolte a questi orientamenti radicali; non si può tuttavia negare che se si resta legati a quell’ipotesi di “antropocentrismo moderato”, di cui abbiamo inizialmente parlato, allora la protezione della natura risulta in un modo o nell’altro funzionale all’uomo. Difatti, se così fosse, tutte le volte che abbandonare la difesa della natura si dimostrasse di maggiore utilità dell’uomo, la natura dovrebbe essere sacrificata. Forse c’è un modo per superare anche questa impasse tra deep ecology e shallow ecology ed è quello di insistere, come ha fatto Hargrove, sull’idea di valore estetico della natura (Hargrove, Foundations of environmental ethics, 1989). Non esiste solo la bellezza artistica creata dall’uomo, esiste anche una bellezza che non è risultato della sua attività, bensì che ha il fondamento in un qualche elemento dell’ecosistema: il profilo di una montagna, l’ondeggiare del mare, il vivace colore di un campo di fiori. Se la protezione della natura dipendesse soltanto dalla sua utilità per l’uomo essa verrebbe a cessare nel momento in cui non fosse più utile. Una difesa dell’ambiente che faccia perno sul suo valore estetico potrebbe invece superare il limite di una sua considerazione in termini di mera utilità. Si potrà obiettare che tutto ciò non riguarda specificamente la bioetica ambientalista. Per certo la bellezza di un diamante e il godimento estetico che ci procura la sua visione non rientra nell’ambito della bioetica; ma già vi rientra l’idea che le piante naturali siano sostituite da quelle di plastica. E ancor più scelte di forte impatto ambientale come la distruzione di un bel paesaggio per costruire un’autostrada o l’abbattimento di una foresta intatta per la produzione di legname. Insistere sul valore in sé delle bellezze naturali, insomma, può 13 contribuire a difenderle indipendentemente da una considerazione in termini di utilità. L’animalismo è un movimento per la difesa dei diritti morali e per il riconoscimento di tutele giuridiche agli animali ed alle specie alle quali essi appartengono. Tra i principali obiettivo dell’animalismo si deve ricordare la lotta per cessare le sperimentazioni sugli animali da laboratorio e l’eliminazione degli allevamenti intensivi. La bioetica animalista, viceversa, ha certo avuto un potente alleato nell’utilitarismo, dal momento che per questo orientamento tutti gli esseri senzienti (e soltanto questi) hanno valore. In generale la filosofia utilitarista si fonda sul principio del piacere e del dolore, considerando bene tutto quello che aumenta il primo, e male tutto quello che accresce il secondo. E poiché non vi è dubbio che piacere e dolore siano sensazioni provate non solo dagli uomini, ma anche dagli animali pure questi ultimi hanno valore. L’esponente oggi più noto di questo orientamento, Peter Singer (nato nel 1946), ne conclude che “tutti gli animali sono uguali”. Una tesi molto radicale che pare offrire a tutti gli animali la massima protezione: il loro valore è infatti uguale a quello degli esseri umani (Singer, Animal Liberation, 1977). Singer vuole costruire un’etica interspecifica e stigmatizza come “specistica” qualsiasi etica che assumendo un punto di vista antropocentrico discrimina tutte le altre specie animali. Non di meno l’utilitarismo presenta molti più difetti di quanto non si creda, perché si fonda, nella sua forma più tradizionale che risale a Jeremy Bentham (1748-1832), sul principio di massimizzazione del piacere e minimizzazione del dolore. E la difficoltà sta proprio nel calcolo e nella comparazione delle diverse sensazioni di piacere e dolore, della loro intensità e durata. Le conclusioni di Singer sono, inoltre, per certi versi paradossali, ancorché coerenti con la sua posizione filosofica: stabilendo che la capacità di provare piacere e dolore è l’indicatore per la liceità morale di alcuni atti, si dovrà concludere che non si devono condurre sperimentazioni sugli animali da laboratorio (topi, cavie, scimpanzé), ma che invece non esiste alcuna remora ad utilizzare neonati anencefalici e malati in coma irreversibile (ammesso che questi, rispettivamente, non siano ancora o non siano 14 più in grado di soffrire) per condurre quelle sperimentazioni che sarebbero invece da vietare qualora coinvolgessero animali. Ma non vi sono solo queste teorie a difesa degli animali. Secondo Tom Regan (nato nel 1938) tutti gli animali hanno un valore inerente e pertanto dei diritti (Regan, The case for animal rights, 1983). Bisognerebbe, tuttavia, considerare tale valore, non come un valore categoriale che non ammette gradazione, bensì come un valore relativo: tanto più grande è la vicinanza della specie animale a quella umana nella scala evolutiva, tanto maggiore dovrebbe essere ritenuto il suo valore. Il nuovo valore che oggi attribuiamo a molti animali nasce da una nostra maggiore conoscenza della complessità del mondo animale, ma può essere letto in continuità con quello tradizionale di kantiana memoria che ci imponeva comunque di non essere crudeli nei loro confronti. Se la cosiddetta “tesi della crudeltà” richiamava l’attenzione sulle conseguenze che il maltrattamento degli animali poteva avere sul modo in cui gli esseri umani si trattavano a vicenda (Kant, Metaphysik der Sitten, 1797), in queste nuove concezioni si va sicuramente un passo oltre (ma nella stessa direzione) sostenendo che qualcosa di sbagliato c’è e c’è sempre nell’essere crudele con un animale. 5. Dalla bioetica al biodiritto Nel tentativo di trovare soluzioni ai dilemmi bioetici si invoca spesso l’intervento giuridico. Bisogna però discutere con attenzione i significati e i limiti di tale intervento. Fino a poco tempo fa la bioetica era un ambito di studio di competenza soprattutto dell’etica filosofica e della teologia morale. Le cose tuttavia stanno lentamente cambiando e la bioetica è diventata un campo di ricerca anche per la scienza giuridica. Del resto che il diritto, nella sua funzione di organizzazione della convivenza sociale, sia sempre più interpellato in ambiti cosiddetti “eticamente sensibili” è un fatto che salta subito agli occhi di tutti. Il diritto è chiamato a fornire risposte anche in questo settore (e, semmai, si tratta di discutere in quali modi tale intervento sia auspicabile), e per farlo ha bisogno di giuristi, che 15 dal punto di vista giuridico, affrontino gli stessi problemi che da tempo sono oggetto di discussione da parte di teologi e filosofi morali. È un fatto sul quale vale la pena di riflettere: allo stato attuale abbiamo diverse “nuove” teorie etiche, ma nonostante il proliferare di “nuovi diritti”, nessun “nuovo” diritto. Eppure, le possibilità che le attuali tecnologie applicate all’uomo ci offrono, costringono l’intera scienza giuridica a ripensare le categorie su cui si fonda. I recenti sviluppi delle biotecnologie applicati alla medicina non solo sollevano – come abbiamo visto – nuovi e inquietanti problemi bioetici, ma costituiscono una vera e propria sfida anche per il pensiero giuridico. I giuristi dovrebbero senz’altro accoglierla, senza limitarsi a legittimare i successi conseguiti dalla tecnica. Come caso emblematico si può prendere in esame il tema del corpo umano, con attinenza alla sua (in)disponibilità, un tema che è centrale per molte questioni bioetiche ed è per questo che di esso ora ci occuperemo. A partire soprattutto dal successo della trapiantologia (da vivente, come da cadavere) siamo sempre più abituati a considerare il corpo umano non più come un tutto unitario (come Leib), bensì come un insieme di parti separabili (Körper). Venuta meno l’inscindibilità del corpo, le parti di cui è composto potrebbero allora essere considerate come cose, di cui il suo proprietario possiede – come per le altre cose – un’assoluta ed immediata disponibilità. Una tale scomposizione del corpo non può non riflettersi sulla sua considerazione complessiva. E così è il corpo stesso a venir ridotto a cosa: non più dunque assimilato, come tradizionalmente accadeva nella scienza civilistica, alla persona; bensì collocato interamente tra i beni negoziabili. La classica separazione giuridica tra persone e cose viene così scossa dalle fondamenta. Dobbiamo concluderne che sia giuridicamente accettabile cosificare il corpo e dunque ammettere la sua commercializzazione, come sempre più spesso si sente reclamare in ambito bioetico? D’altronde se spostiamo il nostro sguardo oltreoceano, negli Stati Uniti d’America, si può facilmente constatare come aspetti commerciali connessi alla corporeità umana siano già diffusi. I donatori di sperma ricevono sotto forma di 16 “rimborso spese” una contropartita finanziaria e i compensi per gli ovuli sono molto più elevati. Parimenti lecito è il contratto di maternità “surrogata”, con diverse tariffe di mercato. Quest’ultimo caso è di particolare interesse poiché mostra come la commercializzazione della funzione riproduttiva coinvolga il corpo della madre di sostituzione nella sua totalità (Spar, The Baby Business, 2006). Tutto ciò è già in alcuni Paesi legalmente ammesso; dal punto di vista del diritto che deve essere formulato e sancito mediante apposite leggi, si discute invece da tempo sulla commercializzazione degli organi tanto da vivente quanto da cadavere. L’esistenza di un mercato illegale degli organi, che coinvolge alcuni Paesi dell’America Latina, alcune regioni dell’India, il Pakistan, la Turchia e Paesi dell’Est europeo (Scheper-Hughes, Wacquant, Commodifying bodies, 2002) è comunque già una tragica realtà e in alcuni Paesi esistono pure situazioni di mercato legale (come in Iran e a Singapore) oppure il commercio degli organi è ampiamente tollerato (Cattanìa, Brandi, Cina. Traffici di morte. Il commercio degli organi dei condannati a morte, 2008). Se il corpo rientrasse semplicemente nell’ambito delle cose risulterebbe difficile fermare una tale deriva. Una volta infatti che esso venisse considerato una cosa sembrerebbe, perlomeno prima facie, del tutto conseguente trattarlo come una qualsiasi altra cosa: si può affittarlo (l’utero) o venderne alcune parti (gli organi). Del corpo si avrebbe piena e totale disponibilità, come su un qualsiasi altro bene materiale. In tale prospettiva al diritto spetterebbe un compito alquanto modesto: quello di regolare il mercato del corpo umano come già regola il mercato di tutte le altre merci. Va peraltro subito osservato che una tale prospettiva, che oltreoceano pare in dottrina riscontrare un certo successo, incontra ancora non poche difficoltà nella nostra cultura giuridica, la quale tutto sommato continua ad escludere l’idea che tra la persona e il suo corpo esista una relazione proprietaria e ritiene, per converso, che il corpo sia un elemento inscindibile della persona. Di seguito alcune osservazioni riguardanti il diritto vigente in Italia. Alla totale disponibilità del corpo, sostenuta in ambito bioetico, si risponde così apparentemente con una altrettanto pressoché totale indisponibilità che nel nostro ordinamento trova espressione all’art. 5 del codice civile, secondo il quale 17 “gli atti di disposizione sul proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume”. È pur vero che anche sulla base di questo articolo si può pure in realtà distinguere tra il corpo come un tutto (identificato con la persona e pertanto indisponibile) e, alcune parti di esso che staccate possono essere oggetto di diritti; ma questa distinzione sembra avere ben poca rilevanza pratica, dal momento che ciò che veniva ritenuto disponibile (vendita dei capelli, contratto di baliatico) è oggi di scarso rilievo sociale. Le parti staccate del corpo attualmente rilevanti sono altre: sangue, reni e parti di fegato prelevati da viventi a scopo di trapianto e, con lo stesso fine, organi e tessuti in generale prelevati in condizione di morte cerebrale. Questi sono i “beni” preziosissimi di cui oggi tanto si discute. Rispetto a tutto ciò suscita seri dubbi affidarsi ancora alla disciplina codicistica, la quale del resto è già stata ampiamente derogata, in modo esplicito, da leggi che nel nostro Paese ammettono atti – come il prelievo da rene da vivente e più recentemente parti di fegato (si vedano rispettivamente la legge 26 giugno 1967, n. 458 e la legge 16 dicembre 1999, n. 483) – i quali, senza dubbio, incidono sull’integrità fisica del disponente e dunque in base all’art. 5 del codice civile dovrebbero essere vietati. È opportuno in questo contesto ricordare anche la legge che è intervenuta a regolare la possibilità del mutamento di sesso (legge 14 aprile 1982, n. 164), derogando, in questo caso implicitamente, al divieto dell’art. 5 del codice civile e la giurisprudenza su questa base è giunta ad ammettere la liceità della sterilizzazione volontaria (sentenza della Corte di Cassazione del 18.3.1987). Tutto ciò concorre all’affermazione diffusa del principio dell’autodeterminazione individuale e mette sempre più in causa quello dell’indisponibilità dell’integrità fisica. Sostenere l’indisponibilità della propria integrità fisica e da ciò dedurre che, a maggior ragione, non si possa disporre della propria vita, contrasta con un dato di fatto ormai ampiamente registrato dalla giurisprudenza: oggi in molti casi è già lecito disporre della propria integrità. Solo una concezione organicistica in senso 18 forte e, in ultima istanza, totalitaria dello Stato può considerare, sotto il profilo giuridico, il corpo di ogni suo membro, la sua salute e la sua malattia in termini di doveri: doveri verso lo Stato di preservare il proprio corpo e di mantenerlo in salute. E non è un caso che l’art. 5 del codice civile (la cui promulgazione – non dimentichiamolo – risale al 1942) è proprio il frutto di una ideologia tale per cui il singolo individuo aveva solo doveri, nella fattispecie il dovere di preservare il suo corpo per il bene dello Stato. Ma una concezione di questo genere è in radicale contrasto con l’impianto personalistico della Costituzione italiana del 1948, la quale all’art. 32, 2° comma, considera la salute in termini di diritti e non di doveri. E tuttavia mentre in questo modo viene aperta la porta alla disponibilità del corpo essa viene ancora tenuta saldamente chiusa riguardo all’aspetto che forse maggiormente caratterizza in senso giuridico la disponibilità: quella di poter essere oggetto di diritti. Si ritiene cioè lecito l’atto di disposizione su alcune parti del corpo, anche quando questo incida sulla sua integrità fisica, ma si ammette ciò esclusivamente a titolo gratuito. Questo vuole dire che le parti del corpo, in senso tecnico (nel senso cioè, ad esempio, dell’art. 810 del nostro codice civile) non possono essere qualificate come beni, ossia come “cose che possono formare oggetto di diritti”. Le leggi che si occupano di questi beni li sottraggono tutti al circuito del mercato, tanto che si sarebbe tentati di vedere in ciò una sorta di “clausola generale” degli attuali ordinamenti giuridici. E questo vale non solo per l’Italia, ma con rarissime eccezioni, per gli altri Paesi del mondo. Tanto per fare solo un esempio la recente Convenzione Europea per la protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina (la cosiddetta Convenzione di Oviedo del 1997), convalida la “clausola generale” di cui abbiamo parlato, nel momento in cui l’art. 21, per la verità molto laconicamente, ma anche molto chiaramente, afferma che “il corpo umano e le sue parti non debbono essere, in quanto tali, fonte di profitto”. Il fondamento di quell’articolo è tuttavia da ricercare altrove e precisamente in quella nozione di dignità umana, che è destinata ad assumere un grande rilievo, proprio laddove la distinzione giuridica tra persona e cosa sembrerebbe sfumare (Becchi, Il principio dignità umana, 2009). Insomma, diversamente da quanto 19 ancora prescritto dall’art. 5, di fatto oggi si ammette la disponibilità del proprio corpo, purché essa continui a non essere di natura commerciale, dal momento che ciò violerebbe il principio della dignità umana. Sarebbe tuttavia fuorviante pensare di dedurre da questa disponibilità materiale della propria integrità fisica, che può giungere sino alla disponibilità della propria vita, la liceità dell’eutanasia. Solo quegli atti che riguardano la disposizione materiale della propria integrità fisica, nella misura in cui non toccano la vita di relazione, ma riguardano esclusivamente quella dell’individuo nella sua singolarità, sono e dovrebbero restare estranei alla qualificazione giuridica. La salute, la malattia, l’esistenza biologica restano una faccenda totalmente personale – se c’è un punto dove lo Stato deve rispettare la privacy è proprio questo – come personale resta la scelta di rifiutare un determinato trattamento (anche se ciò mette a repentaglio la vita). L’eutanasia tuttavia, a differenza del suicidio, implica il coinvolgimento attivo di terzi. E di questo il diritto non può non tenere conto, ma lo deve fare non tanto riproponendo un’idea ormai anacronistica di indisponibilità del corpo, bensì considerando gli effetti che una pratica eutanasia diffusa potrebbe avere sull’etica professionale del medico e sul suo ruolo all’interno della società (Becchi, Quando finisce la vita, 2009). 6. Il principio della dignità umana Il superamento della dicotomia tra qualità e sacralità della vita può essere realizzato con l’adozione del principio della dignità umana. Le questioni bioetiche, sia quelle delineate nelle pagine precedenti sia altre che non sono state affrontate in questa sede (come ad esempio i temi legati alla sperimentazione clinica dei farmaci) chiamano in qualche modo in causa il diritto. Si apre così un ambito di indagine nel quale diventa imprescindibile trovare una risposta alla seguente domanda, che esprime la questione centrale oggi in discussione: è meglio regolamentare con tutta una serie di interventi legislativi le diverse problematiche attinenti alla bioetica oppure è meglio lasciare spazio alle scelte individuali? La risposta dipenderà strettamente dal tipo di approccio etico: 20 se si parte dal riconoscimento dell’esistenza di un dato di fatto, il pluralismo delle teorie etiche, ciascuna portatrice di valori e peculiari concezioni del bene che devono convivere tra loro, si tenderà a rispondere che sarebbe preferibile un intervento “leggero” del diritto che garantisca la possibilità agli individui di compiere scelte in linea con le loro convinzioni morali. Questo riconoscimento tuttavia potrebbe scontrarsi con l’esistenza di un approccio che considera non negoziabili alcuni valori, i quali dovrebbero essere giuridicamente imposti con l’impiego della forza. Un esempio può facilmente chiarire questa affermazione. Se la vita è un valore non negoziabile – così argomentano i sostenitori della bioetica cattolica – essa dovrà essere difesa contro qualsiasi scelta individuale. Se invece la vita è un bene di cui l’uomo può (entro certi limiti) disporre – così argomentano i sostenitori della bioetica laica – è evidente che il diritto non dovrebbe interferire con scelte che riguardano la coscienza individuale. Si giunge in tal modo ad una contrapposizione tra valori, che è oggi caratteristica del dibattito bioetico e biogiuridico italiano, e che di fatto cristallizza tale dibattito su posizioni diametralmente opposte e in conflitto tra loro. Un modo per uscire da questo vicolo cieco potrebbe essere quello di superare la dicotomia tra sacralità e qualità della vita, introducendo un principio, quello della dignità umana che potrebbe per certi versi configurarsi come una sintesi di entrambe. Questo approccio aprirebbe uno spazio entro il quale la valutazione della qualità della vita potrebbe rendere giustificabile la conclusione di un’esistenza priva dei requisiti minimi che le conferiscono dignità, perché la persona ritiene che a quelle condizioni e senza quei requisiti la sua vita sia priva di dignità. Non sarà più la vita in sé e per sé ad essere un principio assoluto, ma semmai la dignità dell’uomo. Le cose tuttavia sono più complicate di quanto possa sembrare dallo schema ora delineato. Si pensi ad esempio al caso dell’eutanasia. Se si accetta il principio della (limitata) disponibilità della vita, il diritto dovrebbe soddisfare la richiesta di eutanasia formulata da un malato terminale? La risposta alla domanda di eutanasia del malato prevede il coinvolgimento di altre persone: chi dovrebbe essere autorizzato per legge a compiere questo atto? Il medico potrebbe compiere il gesto 21 estremo nel rispetto della scelta individuale del suo paziente? Ma ammettere questa possibilità significherebbe trascurare che, agendo come “donatore di morte” il medico potrebbe entrare in conflitto con la sua deontologia professionale. Questo rapido esempio è servito a mostrare come il rapporto tra bioetica e biodiritto sia tutt’altro che facile (Seelmann, Dalla bioetica al biodiritto, 2007). Ciò che dal punto di vista bioetico può essere considerato da alcuni moralmente lecito può invece giustificare un intervento giuridico restrittivo. Le proposte offerte dal diritto non sempre sono in linea con quelle della morale. Se, ad esempio, sotto il profilo morale in particolari circostanze può essere ritenuta lecita l’eutanasia attiva, sotto il profilo del diritto il legislatore può tuttavia decidere di non legalizzare (o vietare) quella pratica, per ragioni di ordine sociale e per tutelare gli interessi ed il suolo del medico che potrebbe eventualmente essere coinvolto in un atto eutanasico. Il legislatore deve dunque operare una bilanciamento tra diverse istanze in vista della migliore tutela possibile degli interessi di tutte le parti coinvolte. Bibliografia R. Barcaro, P. Becchi, P. Donadoni, Prospettive bioetiche di fine vita. La morte cerebrale e il trapianto di organi, Franco Angeli, Milano 2008. P. Becchi, Quando finisce la vita. La morale e il diritto di fronte alla morte, Aracne, Roma 2009. P. Becchi, Il principio dignità umana, Morcelliana, Brescia 2009. D. Callahan, Bioethics, in S.G. Post (a cura di), Encyclopedia of Bioethics, Macmillan, New York 2004, 3° ed., vol. I, pp. 278-287. M.V. Cattanìa, T. Brandi, Cina. Traffici di morte. Il commercio degli organi dei condannati a morte, Guerini e Associati, Milano 2008. G. Dworkin, R.G. Frey, S. Bok, Euthanasia and physician-assisted suicide, Cambridge University Press, Cambridge-New York 1998; trad. it. Eutanasia e suicidio assistito. Pro e contro, Einaudi, Torino 2001. G. 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