La filosofia di fronte ai limiti della vita: i problemi della
bioetica
Rosangela Barcaro e Paolo Becchi
[versione ridotta di un saggio pubblicato in:
S. Mele, La ricerca del sapere. 3. Da Schopenhauer alla filosofia contemporanea,
Messina-Firenze, Casa Editrice G. D’Anna, 2011, pp. 643-660]
“Bioetica” è un neologismo composto di due vocaboli greci – bios ed ēthikē
– e letteralmente significa “etica della vita”. La bioetica è una disciplina nata circa
tre decenni orsono sulla scia delle problematiche etiche emergenti dalla scoperta
ed utilizzo di nuove tecnologie, applicabili in settori quali la medicina e
l’ambiente. Secondo il pensatore statunitense Daniel Callahan (nato nel 1930),
pioniere degli studi bioetici, è una impresa difficile riuscire a fornire una
definizione unanimemente condivisa del vocabolo “bioetica”: ancora oggi il
termine è impiegato per indicare più ambiti di riflessione: innanzitutto il settore di
indagine nato dall’incontro di etica e scienze della vita, poi la disciplina
accademica ormai parte dei piani di studio di numerose università; a ciò si
aggiungano l’ambito politico che si interessa alla medicina e all’ambiente e la più
ampia prospettiva culturale nella quale rivestono un importante ruolo ad esempio
gli studi storico-sociali, l’economia, la letteratura, la religione (Bioethics, 2004, p.
278). Questa molteplicità di significati secondo Callahan è la realtà odierna della
bioetica.
Se cerchiamo di ripercorrere la storia della parola “bioetica” scopriamo che
essa è stata coniata dall’oncologo statunitense Van R. Potter (1911-2001), il quale
la usò per la prima volta in un articolo pubblicato nel 1970 (Bioethics: the science
of survival). Ad esso seguì nel 1971 un’opera (Bioethics. A bridge to the future),
nella quale nella quale la bioetica sarebbe dovuta servire a costituire un ponte tra
scienze sperimentali e scienze umane, con l’obiettivo di garantire la
sopravvivenza dell’uomo sul pianeta e di promuovere un cambiamento culturale
che consentisse all’uomo di affrontare i mutamenti e le derive che, soprattutto nei
Paesi occidentali, il progresso scientifico e tecnologico (scoperta dell’energia
nucleare, sfruttamento incontrollato dell’ambiente, mutamenti climatici globali,
ecc.) aveva indotto sia nella biosfera sia nella vita organica. La connotazione
proposta da Potter non aveva necessariamente legami con la medicina; dal suo
punto di vista la bioetica doveva essere biocentrica, nel senso che avrebbe dovuto
riguardare la sopravvivenza della vita sulla terra, sia che essa fosse umana,
animale o vegetale.
Ben presto tuttavia la parola “bioetica” iniziò ad essere impiegata in modo
pressoché esclusivo per designare una branca dell’etica medica (Walters, Bioethics
as a field of ethics, 1978). Questo nuovo taglio semantico è frutto di una scelta che
ha visto concentrare l’attenzione degli studiosi esclusivamente sulle questioni
etiche emergenti dalla pratica della medicina, e ha portato a concepire un modello
di bioetica ispirato all’antropocentrismo, che è però incapace di accogliere le
molteplici istanze morali emergenti dall’animalismo e dall’ambientalismo.
Questo accento antropocentrico si rileva in un’altra definizione di bioetica,
ampiamente diffusa e citata in letteratura, quella contenuta nella Encyclopedia of
Bioethics, un’opera monumentale che dalla sua prima pubblicazione nel 1978 ha
oggi raggiunto la sua terza edizione riveduta ed ampliata. Nella prima edizione
dell’Encyclopedia la bioetica fu definita come studio sistematico della condotta
umana, nell’ambito delle scienze della vita e della salute, esaminata alla luce di
valori e principi morali (Reich, Introduction, Encyclopedia of Bioethics, 1978, p.
XIX).
Rispetto alla definizione contenuta nella prima edizione della Encyclopedia,
nell’edizione del 1995 (e successivamente ribadita nella terza edizione del 2003)
la definizione di bioetica viene aggiornata ed articolata per includere nello studio
sistematico delle dimensioni morali delle scienze della vita e della salute, la
visione morale, le decisioni, la condotta e le politiche in prospettiva
interdisciplinare (Post, Introduction, Encyclopedia of Bioethics, 2003, p. XI).
Come si può notare in questa seconda concezione è stato dato risalto alla
natura interdisciplinare dell’impresa bioetica e sono state poste in rilievo nuove
realtà che nel corso di circa un decennio hanno modellato la bioetica come
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disciplina: si tratta del riconoscimento dell’esistenza di politiche ed interventi
legislativi che si sono affacciati sulla scena pubblica insieme al fiorire di teorie
etiche differenti tra loro, ma tutte impegnate a chiarire il significato di ciò che è
bene o male.
Anche nel nostro Paese la bioetica ha ottenuto attenzione e spazi accademici
ed ha seguito un percorso “evolutivo” estremamente peculiare. Da un esame della
principale letteratura italiana osserviamo come, ad esempio, il filosofo del diritto
Uberto Scarpelli (1924-1993) ritenga che la bioetica sia l’etica “relativa ai
fenomeni della vita organica, del corpo, dello sviluppo, maturità e vecchiaia, della
salute, della malattia e della morte” (Scarpelli, La bioetica. Alla ricerca dei
principi, p. 7); in modo analogo, ma da una prospettiva completamente diversa,
per Elio Sgreccia (nato nel 1928), fondatore del Centro di Bioetica presso
l’Università Cattolica del S. Cuore di Roma, la bioetica è “quella parte della
filosofia morale che considera la liceità o meno degli interventi sulla vita
dell’uomo e, particolarmente, di quegli interventi connessi con la pratica e lo
sviluppo delle scienze mediche e biologiche” (Sgreccia, Manuale di bioetica,
1988, p. 49). Quelle ora citate sono due definizioni di bioetica che fanno capo ad
altrettante connotazioni che questa disciplina ha assunto nel nostro Paese: laica e
cattolica (come avremo modo di discutere in modo più approfondito nel
successivo §1).
Tra
le
peculiarità
della
bioetica
è
stata
poc’anzi
menzionata
l’interdisciplinarità, a significare che non esiste un esclusivo ed esaustivo discorso
etico-filosofico o teologico sulle sfide morali poste dalle nuove scoperte
scientifico-tecnologiche: all’indagine bioetica è fondamentale l’apporto di altre
discipline, quali la biologia, la medicina in generale, la giurisprudenza,
l’economia, per citarne soltanto alcune. L’interdisciplinarità si giustifica
pienamente alla luce della natura delle questioni morali stesse: come può il
filosofo o il teologo stabilire la liceità morale di certi interventi (farmacologici o
chirurgici ad esempio) se non sa in che cosa essi consistono, quali procedure
comportano, quali possono essere gli effetti positivi e negativi dalle quali tali
procedure sono accompagnate? E più specificamente se e come possono essere
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regolamentati sotto il profilo giuridico gli accessi a determinate procedure, e come
possono essere eventualmente finanziate, se con denaro privato o pubblico? Come
è facilmente intuibile questi interrogativi si collocano in un contesto più ampio di
quello etico-filosofico ed in parte saranno affrontati nell’ultima parte di questo
capitolo dedicata al biodiritto.
1. Bioetica laica e bioetica cattolica
La disciplina bioetica in Italia ha assunto due differenti connotazioni,quelle
della bioetica laica e della bioetica cattolica, plasmate dall’accoglimento di due
differenti principi, rispettivamente quelli della qualità e della sacralità della vita.
In Italia la bioetica è giunta sulla scia dei dibattiti che si svolgevano
all’estero; ma con una peculiarità. Nel nostro Paese la riflessione sui temi
dell’etica della vita risulta articolata attorno a “due grandi modelli teorici, i quali
si ispirano a due concezioni generali del mondo e a due distinte filosofie”
(Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, 200, p. 15): si tratta della bioetica di
matrice religiosa, e specificatamente cattolica, sostenitrice del principio della
sacralità della vita (sanctity of life), e della bioetica di matrice laica, portatrice del
valore della qualità della vita (quality of life). Ma vediamo subito in cosa consiste
specificamente la distinzione.
Con “bioetica cattolica” si intende una riflessione elaborata a partire dagli
insegnamenti della Chiesa Cattolica. Per la dottrina cattolica la vita umana è un
bene fondamentale, prerequisito per l’esistenza della persona e dono divino.
Poiché la vita umana proviene da Dio l’uomo non può disporne a piacimento.
Questo spiega perché dal principio di sacralità della vita umana viene dedotto
quello della sua indisponibilità. Il bene “vita” è sottratto al possesso e alla scelta
individuale, il che – si badi – non comporta che il credente non possa sacrificare la
propria vita per un bene superiore, per esempio per amore verso il prossimo. Si
legge infatti nell’enciclica Veritatis splendor di Giovanni Paolo II: “mentre è
sempre moralmente illecito uccidere un essere umano innocente, può essere lecito,
lodevole o persino doveroso dare la propria vita (cf. Gv. 15, 13) per amore del
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prossimo o per testimonianza verso la verità” (Giovanni Paolo II, Veritatis
splendor, § 50).
Da queste premesse teologiche consegue, sotto il profilo bioetico, che gli
interventi chirurgici e le terapie farmacologiche sono moralmente leciti se operano
in vista del ripristino della salute e quindi della conservazione della vita umana;
atti come l’aborto o l’eutanasia perseguono uno scopo contrario alla finalità per la
quale la vita è stata creata e sono dunque sempre moralmente illeciti.
“Bioetica laica”, dal versante opposto, è una locuzione impiegata per
indicare una serie di argomentazioni che prescindono dall’ipotesi teologica
dell’esistenza di Dio. Essa può essere intesa in senso forte o debole. In
quest’ultimo senso ci si riferisce ad un atteggiamento critico e antidogmatico,
ispirato al pluralismo, alla libertà e alla tolleranza. Quando si parla di bioetica
laica in senso forte invece si asserisce implicitamente il rifiuto della metafisica e
delle premesse religiose della bioetica cattolica. In entrambi i sensi si ritiene,
tuttavia, fondamentale il richiamo alla dimensione umana della morale, elaborato
cioè dall’uomo, il quale stabilisce le norme morali e decide ciò che è lecito fare
indipendentemente dal credere o meno all’esistenza di Dio.
Dalla prospettiva della bioetica laica saranno considerate moralmente lecite
quelle azioni che sono finalizzate a migliorare, oggettivamente e soggettivamente,
la qualità della vita umana. L’esempio della riproduzione assistita può essere
d’aiuto per esplicitare meglio quanto ora affermato. Dal punto di vista della coppia
che vive con il desiderio frustrato di generare un figlio, il disagio personale,
psicologico ed esistenziale intacca la qualità della loro vita, mentre la
soddisfazione del loro desiderio contribuirebbe al contrario a migliorarla in modi
che soltanto la presenza di un figlio rende possibili.
In genere questi due orientamenti, bioetica laica e bioetica cattolica, sono
presenti in forma alternativa e reciprocamente escludentisi, ossia abbracciando il
primo, il secondo dovrebbe essere rigettato e viceversa: questo contribuisce, in
Italia, alla situazione paradossale per cui si discute tanto su temi bioetici senza
peraltro arrivare quasi mai a conclusioni eticamente condivise. Eppure come si
cercherà di mostrare non sempre posizioni laiche e posizioni ispirate
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religiosamente si oppongono: possono pure darsi, infatti, posizioni laiche che
accettano un concetto di “sacralità secolarizzata” e posizioni religiose che almeno
in certi casi non contestano il principio della qualità della vita. Lo vedremo ora,
soffermandoci in particolare sui temi più scottanti della bioetica medica.
2. La bioetica e la ricerca scientifica all’inizio della vita
La ricerca scientifica applicata alla medicina ha interesse in un particolare
“oggetto” di indagine: l’essere umano. L’impiego di cellule staminali estratte da
embrioni e la procreazione medicalmente assistita sono interventi sull’essere
umano sin alle sue prime fasi di vita e sollevano quesiti bioetici di estrema
complessità.
Iniziamo da un’osservazione che riguarda, più in generale, il tema della
scienza, o meglio l’intreccio tra conoscenze scientifiche e decisioni morali. La
scienza ha sempre perseguito una precisa finalità, il raggiungimento della
conoscenza nelle sue diverse articolazioni (pensiamo alle scienze naturali, fisica,
chimica, biologia); il metodo scientifico basato sull’osservazione, la formulazione
di ipotesi e teorie e il confronto di queste ultime, mediante l’esperimento, con i
fatti con Galileo Galilei (1564-1642) è divenuto garanzia che le asserzioni dello
scienziato si fondano su riscontri empirici capaci di spiegare i fenomeni che
caratterizzano la realtà. La ricerca scientifica, generalmente si pensa, deve essere
libera di perseguire le proprie finalità, con i mezzi che gli scienziati ritengono
appropriati: la scienza deve mirare ad accertare dei fatti, indipendentemente dal
modo in cui essi possono essere valutati.
Tuttavia questa concezione è divenuta oggetto di un ripensamento
complessivo soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento quando gli
scienziati hanno raggiunto la consapevolezza che alcune scoperte potevano avere
ricadute importanti sul piano politico, sociale ed etico. Già Robert Oppenheimer
(1904-1967) dopo Hiroshima disse che lo scienziato aveva commesso un peccato
e probabilmente pensava anzitutto a se stesso, al contributo che egli da fisico
nucleare aveva dato alla messa a punto della bomba atomica. L’impresa
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scientifico-tecnologica non può più essere weberianamente considerata neutrale
“rispetto ai valori” (wertfrei), perché la scienza “pura” e disinteressata, che
persegue finalità meramente conoscitive, non esiste più, o esiste sempre meno
(Jonas, Tecnica, medicina ed etica, 1997).
Si pensi, ad esempio, alle tecniche dell’ingegneria genetica che consentono
di ottenere microorganismi, piante ed animali geneticamente modificati,
trasferendo geni da una specie all’altra e creando in tal modo soggetti transgenici.
L’obbiettivo della ricerca è sin dall’inizio pratico: mira, cioè, non più alla
conoscenza teorica, ma alla produzione di quelle stesse entità che intendiamo
conoscere. Oppure può presentarsi anche il caso che lo scienziato, per raggiungere
alcune conoscenze utili, sia persino costretto a distruggere l’oggetto su cui
sperimenta. E con ciò entriamo già nei temi della bioetica medica. Si pensi al
problema della sperimentazione sulle cellule staminali embrionali: è un fatto, per
la verità ancora da accertare scientificamente, che tali cellule possano contribuire a
debellare alcune malattie e a salvare la vita a pazienti che oggi muoiono di sclerosi
laterale amiotrofica o del morbo di Alzheimer, mentre sappiamo con certezza che
gli embrioni saranno comunque distrutti dopo il prelievo di cellule staminali.
Quanti si appellano al principio della sacralità della vita, considerano
moralmente illecita la sperimentazione sugli embrioni, e rifiutano qualsiasi
intervento che procuri il loro impiego e distruzione, ritenuta un omicidio a tutti gli
effetti. Addurre motivazioni connesse alla libertà di ricerca o a – presumibili –
terapie salvavita a beneficio dell’umanità non giustifica, per coloro che
sostengono questa posizione, l’uccisione di un essere umano ed un embrione è
comunque già un essere umano. Di parere opposto sono invece quanti assumono a
principio guida la qualità della vita: la possibilità di garantire benefici terapeutici
futuri a pazienti che oggi sono destinati a spegnersi nella sofferenza e nel dolore
rende giustificabile anche la creazione a scopo di ricerca di embrioni umani e la
loro successiva distruzione.
Come si vede le posizioni appaiono perfettamente speculari eppure al di là
di tale opposizione tutti dovrebbero interrogarsi sul fatto che la vita non possa
essere manipolata a piacimento, anche per fini del tutto nobili, come la cura di
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alcune malattie. La stessa riflessione può essere estesa alla procreazione
medicalmente assistita: anche qualora si ammetta (e difficilmente si può
contestarlo) che è giusto venire incontro al desiderio di una coppia di avere un
figlio, può spingersi questo desiderio sino al punto di autorizzare la soppressione
di embrioni soprannumerari, quali “prodotti di scarto” della procreazione
assistita? Qui un’etica che tenesse conto soltanto della qualità della vita dei
genitori che vogliono avere un figlio rappresenterebbe una forma di egoismo
difficilmente giustificabile. Accanto a questi temi trovano spazio anche riflessioni
sulle tecniche diagnostiche reimpianto, che possono indurre ad una selezione degli
embrioni per eliminare, insieme all’embrione, le eventuali patologie dalle quali
esso può essere affetto (Franco, Bioetica e procreazione assistita, 2005). Sotto il
profilo sociale al tentativo di garantire ai genitori la nascita di un figlio sano è
sotteso un rischio: quello del rifiuto di quelle persone che sono nate, vivono e
quotidianamente affrontano il loro handicap.
3. Alcune questioni di fine vita: eutanasia e trapianto degli organi
Uno dei temi sul quale maggiormente si è dibattuto in Italia è quello
dell’eutanasia attiva. Esso è stato presentato come una contrapposizione
ineliminabile tra i principi di qualità e sacralità della vita. Si ritiene invece risolta
la questione del trapianto degli organi, sulla quale dovrebbe essere riaperto il
dibattito, soprattutto in relazione alle procedure per il reperimento degli organi.
Il desiderio di un malato inguaribile, con ridotta aspettativa di vita, di
sottrarsi ad una morte vissuta nel dolore e nella sofferenza non alleviabili (o solo
parzialmente alleviabili) dalla medicina è un elemento molto forte che connota il
dibattito sull’eutanasia attiva volontaria (Dworkin, Frey, Bok, Eutanasia e
suicidio assistito, 2001).
Alla fine della vita, può talvolta accadere che l’impegno per la salvaguardia
della vita del paziente, in nome della sua sacralità, possa trasformarsi in un
insieme di misure ed interventi invasivi privi di reale efficacia terapeutica, la cui
messa in atto procrastina soltanto l’exitus, a caro prezzo della qualità della sua
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vita. In tali situazioni la richiesta, volontaria e motivata, rivolta al medico di essere
aiutati a morire mediante una iniezione letale (è questo il caso classico
dell’eutanasia attiva volontaria) diventa un dilemma etico, sia per il paziente che
non trova altre soluzioni che anticipare la propria morte, sia per il medico, il quale
– ottemperando alla richiesta rivoltagli dal paziente – si troverebbe ad agire in
nome non della salvaguardia della vita ma per procurare direttamente la morte.
Proviamo ora a rileggere la discussione sulla liceità dell’eutanasia alla luce
dei principi di sacralità e di qualità della vita. In modo analogo a quanto si è detto
per il caso della procreazione medicalmente assistita, secondo il principio della
sacralità della vita umana, ogni intervento che ponga volontariamente fine alla vita
umana è da ritenersi moralmente illecito, mentre può essere concesso uno spazio –
più o meno ampio – alla richiesta del paziente di essere aiutato a morire se la
questione viene letta nell’ottica della qualità della vita.
Il dibattito sull’eutanasia ruota essenzialmente attorno all’idea secondo cui
l’essere umano può (o non può) decidere di disporre della propria vita nei modi e
nei tempi che egli ritiene adatti a conferire significato alla propria esistenza. Se
per un momento restiamo fermi alla distinzione sopra menzionata tra quanti
accolgono la tesi della sacralità della vita umana e quanti invece propendono per
la sua qualità, si avranno due posizioni di segno opposto a seconda che si accetti la
prima tesi o la seconda. In altre parole, quanti ritengono che la vita umana è sacra,
rifiutano qualsiasi pratica eutanasica, mentre quanti sostengono che l’individuo
abbia il diritto di concludere la propria vita quando non ci sia alcuna possibilità di
guarire malattie come il cancro o l’AIDS, e di eliminare la sofferenza che le
accompagnano, ritengono moralmente lecita l’eutanasia attiva volontaria. Per
questo orientamento scegliere il modo ed il momento di morire costituiscono una
possibilità dell’individuo.
Se nel primo caso ogni dibattito sulle eventuali misure legislative da
adottare potrà essere impostato in termini di proibizione degli interventi finalizzati
a concludere la vita di un paziente terminale ancorché ne abbia fatto egli stesso
esplicita e ripetuta richiesta, nel secondo caso si ragiona sulla adozione di lineeguida che tutelino i pazienti e limitino il rischio di abusi della pratica eutanasia
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considerata comunque lecita. Ma siamo proprio sicuri che anche in questo caso
non si possa uscire dalla dicotomia sacralità/qualità della vita?
Che si scelga di seguire il primo orientamento oppure il secondo, una serie
di problemi sono destinati a rimanere irrisolti. Coloro che insistono sulla qualità
della vita del paziente e chiedono di autorizzare per legge l’intervento del medico
volto a porre fine a quella vita dimenticano che se il medico praticasse un
intervento eutanasico attivo entrerebbe in contrasto con i principi della sua etica
professionale, che da sempre, dal giuramento di Ippocrate, implica il divieto di
somministrare al paziente dei farmaci letali. Coloro che invece insistono sulla
sacralità della vita dimenticano che nelle ultime fasi della malattia terminale il
paziente può chiedere di morire perché ritiene in tal modo di salvaguardare
anzitutto la sua dignità, impedendo che la morte sia differita nel tempo attraverso
tutti i mezzi di cui oggi la medicina dispone.
È difficile uscire da questa impasse, ma per certo non è seguendo la rigida
alternativa tra sacralità e qualità della vita che saremo in grado di farlo, bensì
puntando su un principio, quello della dignità umana, che potrebbe superare la
dicotomia oggi ancora imperante. E non è forse un caso che proprio al tema della
dignità facciano ricorso tanto coloro i quali si richiamano alla sacralità quanto
coloro che si richiamano alla qualità della vita.
Sul tema del trapianto di organi da soggetti in stato di morte cerebrale
invece il consenso sembra universale e chi vorrebbe riaprire la discussione rompe
un tabù, con tutte le conseguenze che questo comporta (Scaraffia, I segni della
morte. A quarant’anni dal rapporto di Harvard). Per chiarire questo punto
bisogna tuttavia almeno accennare alla nuova definizione della morte in termini
neurologici che da circa quaranta anni si è imposta in medicina. Prima si riteneva
che la morte fosse la cessazione totale ed irreversibile di ogni funzione vitale
dell’organismo e che questa fosse attestata dall’arresto cardiocircolatorio e
dall’assenza di respiro. Con lo sviluppo delle tecniche rianimatorie, nel corso
degli anni Sessanta, ci si trovò di fronte alla possibilità di tenere in vita pazienti in
condizioni disperate, che prima sarebbero sicuramente morti, garantendo
artificialmente la respirazione e di conseguenza la
continuazione del battito
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cardiaco. Ma se da un lato le tecniche rianimatorie potevano consentire di salvare
la vita di alcuni pazienti, dall’altro altri pazienti non uscivano più dallo stato di
coma: il cuore continuava a battere, ma il cervello era irrimediabilmente
danneggiato.
Una Commissione, formata prevalentemente (ma non esclusivamente) da
medici dell’Università di Harvard, venne incaricata di studiare la questione e
nell’agosto del 1968 giunse a presentare una relazione finale nella quale veniva
affermato che pazienti, i quali si trovassero in quella condizione di coma
irreversibile, in realtà, non erano più pazienti, ma cadaveri. Con una sola mossa
venivano in apparenza risolte due difficoltà: veniva infatti autorizzata la
sospensione della ventilazione assistita non per consentire al paziente di morire,
ma perché già morto e dal momento che era già morto lo si poteva dopo tre minuti
di sospensione della ventilazione artificiale nuovamente riattaccare al respiratore
per consentire il prelievo degli organi nelle condizioni ottimali. Una soluzione, in
apparenza, brillante, che sembrava metter d’accordo tutti (o quasi), senza alcuna
distinzione, ad esempio, fra i sostenitori della sacralità della vita o della qualità,
dal momento che le operazioni di prelievo avvenivano comunque da soggetti
preventivamente dichiarati deceduti. Ora, se sullo staccare il respiratore in quelle
condizioni si poteva essere effettivamente d’accordo, sul riattaccarlo il consenso
non era per nulla pacifico. Ma nonostante l’immediata opposizione di Hans Jonas
(1903-1993; Jonas, Morte cerebrale e banca di organi umani, 2004) quel
consenso durò almeno fino agli anni Novanta quando alcuni studiosi sulla base di
accurate osservazioni cliniche cominciarono a sottoporre a critiche severe quella
definizione di morte in termini cerebrali. Oggi il dibattito è aperto e molti
sostengono la necessità di andare oltre quella definizione di morte, cercando di
trovare giustificazioni etiche al prelievo degli organi, che non passino però
attraverso una ridefinizione della morte in termini neurologici (Becchi, Morte
cerebrale e trapianto di organi. Una questione di etica giuridica, 2008; Barcaro,
Becchi, Donadoni, Prospettive bioetiche di fine vita. La morte cerebrale e il
trapianto di organi, 2008).
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4. La bioetica ambientalista e la bioetica animalista
La critica all’antropocentrismo mette in evidenza l’importanza di estendere
la considerazione etica e giuridica oltre la sfera degli esseri umani, per includere
l’ambiente e le specie viventi. Sono presentate le principali visioni teoriche di
studiosi che operano nell’ambito della bioetica ambientalista ed animalista.
Anche se la bioetica medica ha assunto un grande rilievo si sbaglierebbe nel
ritenere che la bioetica sia in fondo esclusivamente riconducibile a questo ambito.
Vi sono altri due settori importanti sui quali bisogna soffermarsi e che sono
accomunati dal voler estendere la considerazione etica e giuridica al di là degli
esseri umani.
Nell’ambito di questa discussione si possono tracciare almeno due linee di
tendenza, che partendo da una medesima critica, la critica del principio
antropocentrico, la svolgono ad esiti diversi. Per un verso assistiamo al tentativo
di delineare i paradigmi di una nuova etica, che non ha più al suo centro l’uomo e
neppure l’uomo con le altre specie animali. Per altro verso assistiamo al tentativo
di estendere teorie etiche e giuridiche che tradizionalmente venivano riferite al
soggetto umano, ad altri soggetti, gli animali, aventi con il primo soggetto una
somiglianza ritenuta rilevante: la capacità di provare dolore. Per il primo
orientamento si tratta di elaborare un’etica radicalmente biocentrica; per il
secondo invece l’obiettivo è quello di ripensare le categorie tradizionali dell’etica
in un’ottica interspecifica, capace cioè di estendere il suo campo di applicazione
anche agli animali. In breve: da una parte “ambientalismo”, dall’altra
“animalismo”. Converrà quindi soffermarsi un po’ più da vicino sulla bioetica
ambientalista e su quella animalista.
All’interno della prima sono presenti anche posizioni di antropocentrismo
illuminato, come ad esempio quella rappresentata da John Passmore (1914-2004)
(Passmore, Man’s responsability for nature: ecological problems and western
traditions, 1980), che intendono difendere la natura senza per questo attribuire ad
essa un valore intrinseco; ma l’etica ambientalista presenta pure diverse posizioni
biocentriche a partire da quella “etica della terra” elaborata in senso olistico da
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Aldo Leopold (1887-1948) (Leopold, A Sand County Almanac and Sketches here
and there, 1949) già nell’immediato secondo dopoguerra, sino a quella sviluppata
in senso individualistico da Paul Taylor (nato nel 1923) nel suo libro Respect for
Nature.
In questo contesto vale altresì la pena di ricordare che per distinguere questi
diversi orientamenti il filosofo norvegese Arne Naess (1912-2009) contrappose la
deep ecology, da lui sostenuta, alla shallow ecology (Naess, Ecology, community,
and lifestyle: outline of an ecosophy, 1989). Molteplici critiche sono state rivolte a
questi orientamenti radicali; non si può tuttavia negare che se si resta legati a
quell’ipotesi di “antropocentrismo moderato”, di cui abbiamo inizialmente
parlato, allora la protezione della natura risulta in un modo o nell’altro funzionale
all’uomo. Difatti, se così fosse, tutte le volte che abbandonare la difesa della
natura si dimostrasse di maggiore utilità dell’uomo, la natura dovrebbe essere
sacrificata. Forse c’è un modo per superare anche questa impasse tra deep ecology
e shallow ecology ed è quello di insistere, come ha fatto Hargrove, sull’idea di
valore estetico della natura (Hargrove, Foundations of environmental ethics,
1989).
Non esiste solo la bellezza artistica creata dall’uomo, esiste anche una
bellezza che non è risultato della sua attività, bensì che ha il fondamento in un
qualche elemento dell’ecosistema: il profilo di una montagna, l’ondeggiare del
mare, il vivace colore di un campo di fiori. Se la protezione della natura
dipendesse soltanto dalla sua utilità per l’uomo essa verrebbe a cessare nel
momento in cui non fosse più utile. Una difesa dell’ambiente che faccia perno sul
suo valore estetico potrebbe invece superare il limite di una sua considerazione in
termini di mera utilità. Si potrà obiettare che tutto ciò non riguarda specificamente
la bioetica ambientalista. Per certo la bellezza di un diamante e il godimento
estetico che ci procura la sua visione non rientra nell’ambito della bioetica; ma già
vi rientra l’idea che le piante naturali siano sostituite da quelle di plastica. E ancor
più scelte di forte impatto ambientale come la distruzione di un bel paesaggio per
costruire un’autostrada o l’abbattimento di una foresta intatta per la produzione di
legname. Insistere sul valore in sé delle bellezze naturali, insomma, può
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contribuire a difenderle indipendentemente da una considerazione in termini di
utilità.
L’animalismo è un movimento per la difesa dei diritti morali e per il
riconoscimento di tutele giuridiche agli animali ed alle specie alle quali essi
appartengono. Tra i principali obiettivo dell’animalismo si deve ricordare la lotta
per cessare le sperimentazioni sugli animali da laboratorio e l’eliminazione degli
allevamenti intensivi.
La bioetica animalista, viceversa, ha certo avuto un potente alleato
nell’utilitarismo, dal momento che per questo orientamento tutti gli esseri
senzienti (e soltanto questi) hanno valore. In generale la filosofia utilitarista si
fonda sul principio del piacere e del dolore, considerando bene tutto quello che
aumenta il primo, e male tutto quello che accresce il secondo. E poiché non vi è
dubbio che piacere e dolore siano sensazioni provate non solo dagli uomini, ma
anche dagli animali pure questi ultimi hanno valore. L’esponente oggi più noto di
questo orientamento, Peter Singer (nato nel 1946), ne conclude che “tutti gli
animali sono uguali”. Una tesi molto radicale che pare offrire a tutti gli animali la
massima protezione: il loro valore è infatti uguale a quello degli esseri umani
(Singer, Animal Liberation, 1977). Singer vuole costruire un’etica interspecifica e
stigmatizza come “specistica” qualsiasi etica che assumendo un punto di vista
antropocentrico discrimina tutte le altre specie animali. Non di meno l’utilitarismo
presenta molti più difetti di quanto non si creda, perché si fonda, nella sua forma
più tradizionale che risale a Jeremy Bentham (1748-1832), sul principio di
massimizzazione del piacere e minimizzazione del dolore. E la difficoltà sta
proprio nel calcolo e nella comparazione delle diverse sensazioni di piacere e
dolore, della loro intensità e durata. Le conclusioni di Singer sono, inoltre, per
certi versi paradossali, ancorché coerenti con la sua posizione filosofica:
stabilendo che la capacità di provare piacere e dolore è l’indicatore per la liceità
morale di alcuni atti, si dovrà concludere che non si devono condurre
sperimentazioni sugli animali da laboratorio (topi, cavie, scimpanzé), ma che
invece non esiste alcuna remora ad utilizzare neonati anencefalici e malati in coma
irreversibile (ammesso che questi, rispettivamente, non siano ancora o non siano
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più in grado di soffrire) per condurre quelle sperimentazioni che sarebbero invece
da vietare qualora coinvolgessero animali. Ma non vi sono solo queste teorie a
difesa degli animali.
Secondo Tom Regan (nato nel 1938) tutti gli animali hanno un valore
inerente e pertanto dei diritti (Regan, The case for animal rights, 1983).
Bisognerebbe, tuttavia, considerare tale valore, non come un valore categoriale
che non ammette gradazione, bensì come un valore relativo: tanto più grande è la
vicinanza della specie animale a quella umana nella scala evolutiva, tanto
maggiore dovrebbe essere ritenuto il suo valore. Il nuovo valore che oggi
attribuiamo a molti animali nasce da una nostra maggiore conoscenza della
complessità del mondo animale, ma può essere letto in continuità con quello
tradizionale di kantiana memoria che ci imponeva comunque di non essere crudeli
nei loro confronti. Se la cosiddetta “tesi della crudeltà” richiamava l’attenzione
sulle conseguenze che il maltrattamento degli animali poteva avere sul modo in
cui gli esseri umani si trattavano a vicenda (Kant, Metaphysik der Sitten, 1797), in
queste nuove concezioni si va sicuramente un passo oltre (ma nella stessa
direzione) sostenendo che qualcosa di sbagliato c’è e c’è sempre nell’essere
crudele con un animale.
5. Dalla bioetica al biodiritto
Nel tentativo di trovare soluzioni ai dilemmi bioetici si invoca spesso
l’intervento giuridico. Bisogna però discutere con attenzione i significati e i
limiti di tale intervento.
Fino a poco tempo fa la bioetica era un ambito di studio di competenza
soprattutto dell’etica filosofica e della teologia morale. Le cose tuttavia stanno
lentamente cambiando e la bioetica è diventata un campo di ricerca anche per la
scienza giuridica. Del resto che il diritto, nella sua funzione di organizzazione
della convivenza sociale, sia sempre più interpellato in ambiti cosiddetti
“eticamente sensibili” è un fatto che salta subito agli occhi di tutti. Il diritto è
chiamato a fornire risposte anche in questo settore (e, semmai, si tratta di discutere
in quali modi tale intervento sia auspicabile), e per farlo ha bisogno di giuristi, che
15
dal punto di vista giuridico, affrontino gli stessi problemi che da tempo sono
oggetto di discussione da parte di teologi e filosofi morali.
È un fatto sul quale vale la pena di riflettere: allo stato attuale abbiamo
diverse “nuove” teorie etiche, ma nonostante il proliferare di “nuovi diritti”,
nessun “nuovo” diritto. Eppure, le possibilità che le attuali tecnologie applicate
all’uomo ci offrono, costringono l’intera scienza giuridica a ripensare le categorie
su cui si fonda. I recenti sviluppi delle biotecnologie applicati alla medicina non
solo sollevano – come abbiamo visto – nuovi e inquietanti problemi bioetici, ma
costituiscono una vera e propria sfida anche per il pensiero giuridico. I giuristi
dovrebbero senz’altro accoglierla, senza limitarsi a legittimare i successi
conseguiti dalla tecnica.
Come caso emblematico si può prendere in esame il tema del corpo umano,
con attinenza alla sua (in)disponibilità, un tema che è centrale per molte questioni
bioetiche ed è per questo che di esso ora ci occuperemo.
A partire soprattutto dal successo della trapiantologia (da vivente, come da
cadavere) siamo sempre più abituati a considerare il corpo umano non più come
un tutto unitario (come Leib), bensì come un insieme di parti separabili (Körper).
Venuta meno l’inscindibilità del corpo, le parti di cui è composto potrebbero
allora essere considerate come cose, di cui il suo proprietario possiede – come per
le altre cose – un’assoluta ed immediata disponibilità. Una tale scomposizione del
corpo non può non riflettersi sulla sua considerazione complessiva. E così è il
corpo stesso a venir ridotto a cosa: non più dunque assimilato, come
tradizionalmente accadeva nella scienza civilistica, alla persona; bensì collocato
interamente tra i beni negoziabili. La classica separazione giuridica tra persone e
cose viene così scossa dalle fondamenta. Dobbiamo concluderne che sia
giuridicamente accettabile cosificare il corpo e dunque ammettere la sua
commercializzazione, come sempre più spesso si sente reclamare in ambito
bioetico?
D’altronde se spostiamo il nostro sguardo oltreoceano, negli Stati Uniti
d’America, si può facilmente constatare come aspetti commerciali connessi alla
corporeità umana siano già diffusi. I donatori di sperma ricevono sotto forma di
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“rimborso spese” una contropartita finanziaria e i compensi per gli ovuli sono
molto più elevati. Parimenti lecito è il contratto di maternità “surrogata”, con
diverse tariffe di mercato. Quest’ultimo caso è di particolare interesse poiché
mostra come la commercializzazione della funzione riproduttiva coinvolga il
corpo della madre di sostituzione nella sua totalità (Spar, The Baby Business,
2006). Tutto ciò è già in alcuni Paesi legalmente ammesso; dal punto di vista del
diritto che deve essere formulato e sancito mediante apposite leggi, si discute
invece da tempo sulla commercializzazione degli organi tanto da vivente quanto
da cadavere. L’esistenza di un mercato illegale degli organi, che coinvolge alcuni
Paesi dell’America Latina, alcune regioni dell’India, il Pakistan, la Turchia e Paesi
dell’Est europeo (Scheper-Hughes, Wacquant, Commodifying bodies, 2002) è
comunque già una tragica realtà e in alcuni Paesi esistono pure situazioni di
mercato legale (come in Iran e a Singapore) oppure il commercio degli organi è
ampiamente tollerato (Cattanìa, Brandi, Cina. Traffici di morte. Il commercio
degli organi dei condannati a morte, 2008). Se il corpo rientrasse semplicemente
nell’ambito delle cose risulterebbe difficile fermare una tale deriva. Una volta
infatti che esso venisse considerato una cosa sembrerebbe, perlomeno prima facie,
del tutto conseguente trattarlo come una qualsiasi altra cosa: si può affittarlo
(l’utero) o venderne alcune parti (gli organi). Del corpo si avrebbe piena e totale
disponibilità, come su un qualsiasi altro bene materiale.
In tale prospettiva al diritto spetterebbe un compito alquanto modesto:
quello di regolare il mercato del corpo umano come già regola il mercato di tutte
le altre merci. Va peraltro subito osservato che una tale prospettiva, che
oltreoceano pare in dottrina riscontrare un certo successo, incontra ancora non
poche difficoltà nella nostra cultura giuridica, la quale tutto sommato continua ad
escludere l’idea che tra la persona e il suo corpo esista una relazione proprietaria e
ritiene, per converso, che il corpo sia un elemento inscindibile della persona. Di
seguito alcune osservazioni riguardanti il diritto vigente in Italia.
Alla totale disponibilità del corpo, sostenuta in ambito bioetico, si risponde
così apparentemente con una altrettanto pressoché totale indisponibilità che nel
nostro ordinamento trova espressione all’art. 5 del codice civile, secondo il quale
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“gli atti di disposizione sul proprio corpo sono vietati quando cagionino una
diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari
alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume”.
È pur vero che anche sulla base di questo articolo si può pure in realtà
distinguere tra il corpo come un tutto (identificato con la persona e pertanto
indisponibile) e, alcune parti di esso che staccate possono essere oggetto di diritti;
ma questa distinzione sembra avere ben poca rilevanza pratica, dal momento che
ciò che veniva ritenuto disponibile (vendita dei capelli, contratto di baliatico) è
oggi di scarso rilievo sociale. Le parti staccate del corpo attualmente rilevanti sono
altre: sangue, reni e parti di fegato prelevati da viventi a scopo di trapianto e, con
lo stesso fine, organi e tessuti in generale prelevati in condizione di morte
cerebrale. Questi sono i “beni” preziosissimi di cui oggi tanto si discute.
Rispetto a tutto ciò suscita seri dubbi affidarsi ancora alla disciplina
codicistica, la quale del resto è già stata ampiamente derogata, in modo esplicito,
da leggi che nel nostro Paese ammettono atti – come il prelievo da rene da vivente
e più recentemente parti di fegato (si vedano rispettivamente la legge 26 giugno
1967, n. 458 e la legge 16 dicembre 1999, n. 483) – i quali, senza dubbio,
incidono sull’integrità fisica del disponente e dunque in base all’art. 5 del codice
civile dovrebbero essere vietati.
È opportuno in questo contesto ricordare anche la legge che è intervenuta a
regolare la possibilità del mutamento di sesso (legge 14 aprile 1982, n. 164),
derogando, in questo caso implicitamente, al divieto dell’art. 5 del codice civile e
la giurisprudenza su questa base è giunta ad ammettere la liceità della
sterilizzazione volontaria (sentenza della Corte di Cassazione del 18.3.1987).
Tutto ciò concorre all’affermazione diffusa del principio dell’autodeterminazione
individuale e mette sempre più in causa quello dell’indisponibilità dell’integrità
fisica.
Sostenere l’indisponibilità della propria integrità fisica e da ciò dedurre che,
a maggior ragione, non si possa disporre della propria vita, contrasta con un dato
di fatto ormai ampiamente registrato dalla giurisprudenza: oggi in molti casi è già
lecito disporre della propria integrità. Solo una concezione organicistica in senso
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forte e, in ultima istanza, totalitaria dello Stato può considerare, sotto il profilo
giuridico, il corpo di ogni suo membro, la sua salute e la sua malattia in termini di
doveri: doveri verso lo Stato di preservare il proprio corpo e di mantenerlo in
salute. E non è un caso che l’art. 5 del codice civile (la cui promulgazione – non
dimentichiamolo – risale al 1942) è proprio il frutto di una ideologia tale per cui il
singolo individuo aveva solo doveri, nella fattispecie il dovere di preservare il suo
corpo per il bene dello Stato. Ma una concezione di questo genere è in radicale
contrasto con l’impianto personalistico della Costituzione italiana del 1948, la
quale all’art. 32, 2° comma, considera la salute in termini di diritti e non di doveri.
E tuttavia mentre in questo modo viene aperta la porta alla disponibilità del
corpo essa viene ancora tenuta saldamente chiusa riguardo all’aspetto che forse
maggiormente caratterizza in senso giuridico la disponibilità: quella di poter
essere oggetto di diritti. Si ritiene cioè lecito l’atto di disposizione su alcune parti
del corpo, anche quando questo incida sulla sua integrità fisica, ma si ammette ciò
esclusivamente a titolo gratuito. Questo vuole dire che le parti del corpo, in senso
tecnico (nel senso cioè, ad esempio, dell’art. 810 del nostro codice civile) non
possono essere qualificate come beni, ossia come “cose che possono formare
oggetto di diritti”. Le leggi che si occupano di questi beni li sottraggono tutti al
circuito del mercato, tanto che si sarebbe tentati di vedere in ciò una sorta di
“clausola generale” degli attuali ordinamenti giuridici. E questo vale non solo per
l’Italia, ma con rarissime eccezioni, per gli altri Paesi del mondo. Tanto per fare
solo un esempio la recente Convenzione Europea per la protezione dei diritti
dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologia
e della medicina (la cosiddetta Convenzione di Oviedo del 1997), convalida la
“clausola generale” di cui abbiamo parlato, nel momento in cui l’art. 21, per la
verità molto laconicamente, ma anche molto chiaramente, afferma che “il corpo
umano e le sue parti non debbono essere, in quanto tali, fonte di profitto”. Il
fondamento di quell’articolo è tuttavia da ricercare altrove e precisamente in
quella nozione di dignità umana, che è destinata ad assumere un grande rilievo,
proprio laddove la distinzione giuridica tra persona e cosa sembrerebbe sfumare
(Becchi, Il principio dignità umana, 2009). Insomma, diversamente da quanto
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ancora prescritto dall’art. 5, di fatto oggi si ammette la disponibilità del proprio
corpo, purché essa continui a non essere di natura commerciale, dal momento che
ciò violerebbe il principio della dignità umana.
Sarebbe tuttavia fuorviante pensare di dedurre da questa disponibilità
materiale della propria integrità fisica, che può giungere sino alla disponibilità
della propria vita, la liceità dell’eutanasia. Solo quegli atti che riguardano la
disposizione materiale della propria integrità fisica, nella misura in cui non
toccano la vita di relazione, ma riguardano esclusivamente quella dell’individuo
nella sua singolarità, sono e dovrebbero restare estranei alla qualificazione
giuridica. La salute, la malattia, l’esistenza biologica restano una faccenda
totalmente personale – se c’è un punto dove lo Stato deve rispettare la privacy è
proprio questo –
come personale resta la scelta di rifiutare un determinato
trattamento (anche se ciò mette a repentaglio la vita). L’eutanasia tuttavia, a
differenza del suicidio, implica il coinvolgimento attivo di terzi. E di questo il
diritto non può non tenere conto, ma lo deve fare non tanto riproponendo un’idea
ormai anacronistica di indisponibilità del corpo, bensì considerando gli effetti che
una pratica eutanasia diffusa potrebbe avere sull’etica professionale del medico e
sul suo ruolo all’interno della società (Becchi, Quando finisce la vita, 2009).
6. Il principio della dignità umana
Il superamento della dicotomia tra qualità e sacralità della vita può essere
realizzato con l’adozione del principio della dignità umana.
Le questioni bioetiche, sia quelle delineate nelle pagine precedenti sia altre
che non sono state affrontate in questa sede (come ad esempio i temi legati alla
sperimentazione clinica dei farmaci) chiamano in qualche modo in causa il diritto.
Si apre così un ambito di indagine nel quale diventa imprescindibile trovare una
risposta alla seguente domanda, che esprime la questione centrale oggi in
discussione: è meglio regolamentare con tutta una serie di interventi legislativi le
diverse problematiche attinenti alla bioetica oppure è meglio lasciare spazio alle
scelte individuali? La risposta dipenderà strettamente dal tipo di approccio etico:
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se si parte dal riconoscimento dell’esistenza di un dato di fatto, il pluralismo delle
teorie etiche, ciascuna portatrice di valori e peculiari concezioni del bene che
devono convivere tra loro, si tenderà a rispondere che sarebbe preferibile un
intervento “leggero” del diritto che garantisca la possibilità agli individui di
compiere scelte in linea con le loro convinzioni morali. Questo riconoscimento
tuttavia potrebbe scontrarsi con l’esistenza di un approccio che considera non
negoziabili alcuni valori, i quali dovrebbero essere giuridicamente imposti con
l’impiego della forza. Un esempio può facilmente chiarire questa affermazione. Se
la vita è un valore non negoziabile – così argomentano i sostenitori della bioetica
cattolica – essa dovrà essere difesa contro qualsiasi scelta individuale. Se invece la
vita è un bene di cui l’uomo può (entro certi limiti) disporre – così argomentano i
sostenitori della bioetica laica – è evidente che il diritto non dovrebbe interferire
con scelte che riguardano la coscienza individuale. Si giunge in tal modo ad una
contrapposizione tra valori, che è oggi caratteristica del dibattito bioetico e
biogiuridico italiano, e che di fatto cristallizza tale dibattito su posizioni
diametralmente opposte e in conflitto tra loro.
Un modo per uscire da questo vicolo cieco potrebbe essere quello di
superare la dicotomia tra sacralità e qualità della vita, introducendo un principio,
quello della dignità umana che potrebbe per certi versi configurarsi come una
sintesi di entrambe. Questo approccio aprirebbe uno spazio entro il quale la
valutazione della qualità della vita potrebbe rendere giustificabile la conclusione
di un’esistenza priva dei requisiti minimi che le conferiscono dignità, perché la
persona ritiene che a quelle condizioni e senza quei requisiti la sua vita sia priva
di dignità. Non sarà più la vita in sé e per sé ad essere un principio assoluto, ma
semmai la dignità dell’uomo.
Le cose tuttavia sono più complicate di quanto possa sembrare dallo schema
ora delineato. Si pensi ad esempio al caso dell’eutanasia. Se si accetta il principio
della (limitata) disponibilità della vita, il diritto dovrebbe soddisfare la richiesta di
eutanasia formulata da un malato terminale? La risposta alla domanda di eutanasia
del malato prevede il coinvolgimento di altre persone: chi dovrebbe essere
autorizzato per legge a compiere questo atto? Il medico potrebbe compiere il gesto
21
estremo nel rispetto della scelta individuale del suo paziente? Ma ammettere
questa possibilità significherebbe trascurare che, agendo come “donatore di
morte” il medico potrebbe entrare in conflitto con la sua deontologia
professionale.
Questo rapido esempio è servito a mostrare come il rapporto tra bioetica e
biodiritto sia tutt’altro che facile (Seelmann, Dalla bioetica al biodiritto, 2007).
Ciò che dal punto di vista bioetico può essere considerato da alcuni moralmente
lecito può invece giustificare un intervento giuridico restrittivo. Le proposte
offerte dal diritto non sempre sono in linea con quelle della morale. Se, ad
esempio, sotto il profilo morale in particolari circostanze può essere ritenuta lecita
l’eutanasia attiva, sotto il profilo del diritto il legislatore può tuttavia decidere di
non legalizzare (o vietare) quella pratica, per ragioni di ordine sociale e per
tutelare gli interessi ed il suolo del medico che potrebbe eventualmente essere
coinvolto in un atto eutanasico. Il legislatore deve dunque operare una
bilanciamento tra diverse istanze in vista della migliore tutela possibile degli
interessi di tutte le parti coinvolte.
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