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BY 4.0 license Open Access Published by De Gruyter (A) July 21, 2022

Tra gli Inferi e le stelle: un problema testuale nel mito di Orfeo in Virgilio (georg. 4,509) e il Leitmotiv astronomico nelle catabasi da Omero a Dante (con echi di Apollonio Rodio)

  • Francesca Boldrer EMAIL logo
From the journal Philologus

Abstract

The article treats the presence of stars in terrestrial landscapes, in opposition to the Underworld and in connection to the topos of katabasis, above all in order to pursue in more depth a textual problem in the fabula Orphei of Vergil’s Georgics (4,509 astris / antris). The philological question is approached both on the basis of context and in relation to the descent into Hades of Aeneas, as well as in diachronic comparison with the earlier Homeric katabasis of Odysseus and the later otherworldly voyage of Dante in the Commedia. This internal and intertextual investigation reveals multiple functions of the celestial bodies in similar stories, as well as analogies between Homer, Vergil and Dante, linked by interests in nature and astronomy and by reciprocal influences. In fact, the Greek model and the Italian emulator seem to help clarify the contested passage in the Vergilian katabasis of Orpheus, while the Latin poet and Dante (who also share echoes of Apollonius Rhodius) rework a celestial detail already present in the νέκυια of Homer. Finally, both these classical authors, as well as Ovid, are subtly present at the ends of the three parts of the Commedia, each of which closes with the suggestive and symbolic image of “stars”, which evokes and renews an ancient tradition.

La rappresentazione degli astra – sole, luna, stelle o cielo stellato[1] – è un aspetto ricorrente nella descrizione di paesaggi naturali e terrestri, specie se contrapposti a quelli sotterranei degli Inferi, ovvero dell’Inferno in ambiente cristiano.[2] La volta celeste è percepita infatti dagli uomini, e specialmente dai poeti, come parte integrante del proprio mondo in quanto fonte vitale di aria e luce, come appare in celebri narrazioni della discesa di mortali nell’oltretomba e del loro ritorno in superficie, quali la νέκυια di Odisseo in Omero (Od. 11),[3] le catabasi di Orfeo e di Enea in Virgilio (georg. 4,453–527; Aen. 6),[4] e il viaggio ultraterreno di Dante. Si nota, infatti, come nelle scene che precedono e seguono tali catabasi l’attenzione del narratore sia spesso rivolta a corpi celesti che sovrastano i personaggi, emblematici della bellezza e dell’ordine della natura e del creato,[5] lasciati nel momento della “discesa” e ritrovati al ritorno, e funzionali al contrasto visivo e filosofico-teologico tra luce e tenebre, corrispondenti al mondo umano e infernale. A ciò si intrecciano interessi scientifici, astronomici e cosmologici diffusi nel mondo antico e medievale,[6] e applicati anche ai racconti di viaggi ultraterreni nella ricerca di concretezza e realismo.[7]

In questa prospettiva gli astri ricorrono nella tradizione letteraria delle catabasi non solo come elementi esornativi del paesaggio, ma anche come dettagli eruditi e simbolici, oggetto di un’attenzione culminante, dopo Omero e Virgilio, nella scelta di Dante di chiudere tutte le cantiche della Commedia con la parola “stelle”.[8] Tale explicit non sembra casuale, bensì allusivo, con nuovi significati allegorici,[9] alla tradizione poetica classica, in cui si possono individuare simili immagini – come si intende qui illustrare –, in particolare in due poeti cari a Dante, appunto Omero e Virgilio, che sembrano affiancarsi a un altro precedente latino, Ovidio, già segnalato per il finale dell’Inferno (XXXIV 139 “e quindi uscimmo a riveder le stelle”).[10] Esso ricorda infatti un passo delle Metamorfosi relativo al viaggio sotterraneo della ninfa Aretusa dall’Elide a Siracusa, in cui ella nomina le “stelle quasi dimenticate”[11] e riapparse al momento del suo arrivo in superficie a Ortigia (met. 5,503): hic caput adtollo desuetaque sidera cerno.

Similmente è plausibile che al termine della prima cantica, e forse anche delle successive, Dante alluda alle più ampie e celebri catabasi narrate da Virgilio, suo “maestro” e “autore” (Inf. I 85), “onore e lume” (I 82) – come è definito con efficace metafora riferita alla luce nell’imminenza del viaggio in luoghi oscuri –, nonché fonte primaria per la struttura dell’Inferno.[12] D'altra parte, anche Omero, ammirato “poeta sovrano” (Inf. IV 88)[13] e noto nel medioevo attraverso Virgilio e in altre forme (pur frammentarie e indirette), poté essergli di esempio.[14] È quanto emerge dal confronto intertestuale che sarà qui condotto (esteso in parte ad Apollonio Rodio), funzionale anche all’interpretazione di alcuni aspetti dei due modelli classici, e in particolare di un problema testuale in un passo virgiliano relativo alla presenza di astri nel mito di Orfeo e di Euridice. Esso verrà approfondito nell’opposizione agli Inferi con attenzione ad elementi sia realistici e scientifici che simbolici e sentimentali, dapprima nel contesto e poi nel confronto con l’Eneide, l’Odissea e la Commedia, che sembrano poter dare un contributo grazie ai loro legami reciproci, tra influssi e allusioni. La ricerca ha così portato a evidenziare, tra l’altro, già in Omero un dettaglio astronomico nella νέκυια di Odisseo, il “cielo stellato”, destinato a dare avvio a questo Leitmotiv, che risulta mantenuto con cura nei racconti di catabasi seguenti.

L’analisi prende avvio dal problematico passo delle Georgiche (4,509) in cui è descritto il luogo in cui Orfeo, ritornato dagli Inferi, piange la perdita definitiva di Euridice. Egli è immerso in un paesaggio connotato da una rupe, dal fiume trace Strimone e da un terzo elemento tuttora incerto e discusso per la presenza di due varianti, astris o antris, cui corrisponde l’immagine di “stelle” o di “grotte” – o una grotta, se plurale poetico[15] –, sotto cui Orfeo rievoca la sua tragica vicenda, ammansendo le fiere e (com)muovendo gli alberi con il suo canto (georg. 4,506–515):

illa quidem Stygia nabat iam frigida cumba.

Septem illum totos perhibent ex ordine menses

rupe sub aeria deserti ad Strymonis undam

flesse sibi et gelidis haec evolvisse sub astris

mulcentem tigris et agentem carmine quercus: 510

qualis populea maerens philomela sub umbra

amissos queritur fetus [...]

[...] at illa

flet noctem ramoque sedens miserabile carmen

integrat et maestis late loca questibus implet. [16] 515

La scelta tra astris e antris non sembra potersi risolvere né ope codicum, poiché ambedue le lezioni sono attestate da manoscritti autorevoli,[17] né in base all’usus scribendi dell’autore, giacché i due termini sono ugualmente frequenti in Virgilio con circa trenta occorrenze ciascuno. Per entrambi vi sono poi passi paralleli sia riguardo al topos del lamento dell’amante infelice (o di chi soffre per altra grave causa), ambientato tanto in scene notturne all’aperto quanto in luoghi chiusi,[18] sia per l’uso virgiliano dell’attributo gelidus, che li qualifica ambedue anche altrove in contesti freddi e inospitali.[19] Dibattuto è poi il rapporto con il precedente nesso rupe sub aeria (4,508), rispetto al quale antris appare ridondante,[20] e con la successiva similitudine tra Orfeo e l’usignolo che, perduti i piccoli, canta tristemente di notte sotto il fogliame (4,511–515).[21] Ne risultano dati ambivalenti che dividono tuttora editori e commentatori.[22]

Tuttavia, sembra possibile avanzare ulteriori argomenti a favore di astris considerando il particolare rapporto ‘antitetico’ del passo rispetto alla catabasi appena compiuta dal personaggio. Si nota infatti un brusco cambio di scena poco prima del verso in discussione,[23] ovvero il passaggio dall’ambientazione nell’Ade (4,506), cui Euridice deve ritornare navigando sulla barca stigia, alla superficie terrestre in cui riappare all’improvviso il solo Orfeo (4,507), dove la presenza delle stelle risulta funzionale alla caratterizzazione realistica e simbolica del luogo opposto agli Inferi. Viceversa, l’assenza di astri connota il mondo sotterraneo, come preciserà poi Dante nell’Inferno (III 22–23): “quivi sospiri, pianti e alti guai / risonavan per l’aere sanza stelle”.[24]

L’attenzione al dettaglio celeste e astrale sembra favorita, al tempo di Virgilio, anche dalla diffusione, a Roma, dell’astronomia (intrecciata all’astrologia)[25] sull’esempio dei greci[26] e soprattutto grazie alla divulgazione dei Fenomeni di Arato, imitati da Varrone Atacino[27] e tradotti in versi da Cicerone negli Aratea (e Prognostica),[28] opera in cui compare la prima attestazione in poesia latina del termine qui in discussione, astrum (Arat. frg. 32,4 Soub.).[29] Di cosmogonia e astronomia si occuparono anche Lucrezio e Virgilio stesso, che nelle Georgiche raccomanda l’osservazione delle stelle per scopi agricoli fin dal primo verso (1,1–5 quo sidere terram / vertere [...] canere incipiam) e dedica ad essa gran parte del primo libro.[30] Egli espresse anche il desiderio di comporre un poema astronomico (in georg. 2,475–477),[31] un progetto non realizzato ma ripreso da Ovidio (Phaenomena) e Manilio (Astronomica), seguiti da una nuova traduzione di Arato curata da Germanico, che testimonia il persistere di interessi astronomici nella società romana.

In questa prospettiva scientifica la validità della lezione astris in georg. 4,509 sembra trovare diversi riscontri nel contesto e in altri autori. Sul piano astronomico si è supposta, anche in base al nesso con gelidis, l’identificazione con precise costellazioni, le Orse (Arctoe), vicine al polo e caratteristiche di luoghi settentrionali come quello descritto, situato in Tracia.[32] Ciò potrebbe trovare supporto in una scena delle Argonautiche di Apollonio Rodio (3,744–746), accomunata all’episodio virgiliano dal tema dell’amore infelice, in cui è descritta la notte in cui Medea vegliava tormentata mentre “i naviganti guardavano all’Orsa e alle stelle (ἀστέρας) di Orione”.[33]

Del resto, la presenza di astra costituisce in Virgilio un dettaglio realistico coerente e complementare rispetto alle altre notizie geografiche che costellano l’episodio, quali nomi di monti e fiumi tra Macedonia e Tracia,[34] e prepara, con l’attributo gelidus, le successive notazioni sul clima freddo del paesaggio nordico che circonda Orfeo, quali i ghiacci iperborei, il Tanai innevato, le pianure rifee mai spoglie di brina (georg. 4,516–517).

D’altra parte, la menzione delle stelle appare correlata a un altro elemento realistico dell’ambiente circostante, la presenza di ‘aria’ o ‘vento’, suggerita dall’aggettivo aerius riferito alla rupes nel precedente v. 508 (rupe sub aeria), anch’esso in antitesi, a ben vedere, con gli Inferi: ricorda infatti le superae aurae indicate come la meta da raggiungere all’uscita di Orfeo ed Euridice dall’Ade (4,486 Eurydice superas veniebat ad auras).[35] Tale dettaglio è già presente nell’episodio della ‘catabasi’ omerica di Odisseo, prima e dopo la νέκυια, quando l’eroe ricorda il “buon vento” che aveva sospinto la sua nave verso il luogo della discesa agli Inferi (Od. 11,7) e poi il “bellissimo vento” con cui finalmente se ne era allontanato (Od. 11,640). Un precedente è pure il passo dell’Iliade (8,479–481) in cui gli Inferi sono connotati dall’assenza di vento e di sole (un astro), definiti come il luogo “dove Crono e Giapeto [...] non dei raggi dell’altissimo Sole, / non godono dei venti, ma intorno è il Tartaro fondo”.[36] Inoltre, in Virgilio aerius sembra favorire astris anche perché la rupes che esso qualifica risulta protesa verso il cielo (l’aria), forse rivolta proprio alle stelle menzionate alla fine del v. 509, come sembra intendere già il commentatore tardoantico Servio Danielino che, unendo i due dettagli, spiega aeria come quae sit vicina astris (ad georg. 4,507 [508]).[37] Anche questo indizio sembra caratterizzare nuovamente in senso realistico e geografico il paesaggio, poiché l’aer, come le stelle gelide, potrebbe alludere alla Tracia, patria di Orfeo: in particolare, può ricordare al lettore colto che in quella regione aveva origine Borea, il freddo vento del nord o tramontana, suggerendo tra l’altro la sofferenza fisica oltre che psicologica di Orfeo, esposto ad esso all’aperto. Inoltre, proprio Borea aveva sospinto la nave di Odisseo al luogo della νέκυια in Omero (Od. 10,507), offrendo possibili richiami al celebre precedente.

Incerto è però, leggendo sub astris, se il poeta intenda indicare con questo la volta stellata in generale, senza distinguere tra fase notturna o diurna (come in Hom. Od. 11,17, per cui vd. infra), o piuttosto solo la notte, quando le stelle sono visibili all’uomo e più spesso soffrono gli amanti infelici. In entrambi i casi (e ancor più nel primo) il cielo stellato indica luminosità opposta all’oscurità dell’Ade.[38] D’altra parte, la notte e corpi celesti luminosi sono presenti (talvolta assieme alla brezza) nel momento in cui si concludono anche altre catabasi, sia nell’Eneide che in Omero e in Dante. È il caso di Enea che, uscito dagli Inferi,[39] dopo una sosta a Gaeta per la sepoltura della nutrice, naviga alla luce della luna (sub lumine, con lo stesso costrutto di sub astris) e al soffio delle aurae (Aen. 7,8–9):

adspirant aurae in noctem nec candida cursus

luna negat, splendet tremulo sub lumine pontus.

Similmente già Odisseo, sfuggito alle anime dell’Ade, riprende il viaggio di notte approdando nell’isola Eèa, “dov’è il levarsi del Sole” (Od. 12,4) e attende lì l’aurora. In seguito Dante, uscendo dall’Inferno nell’altro emisfero, “trovò la notte”, come nota uno dei primi commentatori, Francesco da Buti (a. 1394),[40] che precisa (ad Inf. XXXIV 138–139): “imperò che [Dante] dice che vide delle stelle, sicché non era ancora finita la notte; ma appariva l’aurora”.

La presenza di stelle nel passo virgiliano in questione potrebbe essere associata anche al canto di Orfeo, legato altrove all’astronomia. Infatti, benché qui sia incentrato sull’amore per Euridice, nel mito degli Argonauti, alla cui spedizione Orfeo prese parte distinguendosi per le sue doti musicali – che salvarono più volte dai pericoli la nave e i compagni[41] –, egli cantava soggetti cosmogonici,[42] come narra Apollonio Rodio, che lo celebra nel catalogo degli eroi coinvolti nell’impresa (1,23 “primo fra tutti ricorderemo Orfeo”) e ricorda che egli cantava “come nel cielo le stelle (ἄστρα), e il percorso della luna e del sole, / abbiano un segno sempre fissato” (1,499–500 ἠδ’ ὡς ἔμπεδον αἰὲν ἐν αἰθέρι τέκμαρ ἔχουσιν / ἄστρα, σεληναίης τε καὶ ἠελίοιο κέλευθοι).[43] Si tratta di contenuti sostituiti in Virgilio da temi sentimentali e dolorosi, propri di un poeta elegiaco,[44] ma che potrebbero essere rievocati proprio da astris.

Del resto, la reminiscenza delle Argonautiche traspare anche da altri dettagli nell’episodio virgiliano, come dall’immagine delle querce trascinate dal canto di Orfeo in georg. 4,510 (cfr. Apoll. Rh. 1,27–31 “quel canto ancor oggi lo attestano / le querce selvagge [...], che con l’incanto della sua cetra / il poeta fece muovere”), che ne conferma l’influsso sul poeta latino.[45] Sul suo esempio, già nelle Bucoliche Virgilio aveva ritratto Orfeo come cantore capace di trascinare le selve nella descrizione della coppa intarsiata del pastore Dameta (ecl. 3,46 Orpheaque in medio posuit [Alcimedon] silvasque sequentis);[46] inoltre, nella sesta Bucolica Orfeo è citato a proposito del canto cosmico e mitologico di Sileno (ecl. 6,30 nec tantum Rhodope miratur [...] Orphea). Se è vero che nelle Georgiche compare un diverso lato patetico di Orfeo (4,508–509 flesse sibi [...] evolvisse), il suo passato eroico e scientifico era noto al poeta e al pubblico, e il suo canto produce gli stessi effetti di attrazione sulla natura, ora non solo spettatrice, ma anche partecipe del suo dolore, sia nel caso delle fiere e querce nel passo in questione (georg. 4,510) sia di Driadi, monti o fiumi nominati prima della catabasi (4,460–462).

Tuttavia, rispetto a questi luoghi e creature terrestri, sensibili e solidali, l’immagine delle stelle può indurre a interpretazioni di carattere psicologico e simbolico differenti e forse sottilmente negative, specie per il nesso con gelidus al v. 509, che si presta a una duplice considerazione. Nella prospettiva di Orfeo, affranto “sotto” la volta celeste (sub astris) – e non rivolto ad essa come destinazione o fonte di ispirazione del suo canto –, il cielo stellato può apparire “freddo” in quanto privo del consueto fascino, non potendo più essere contemplato con la persona amata.[47] D’altra parte, la luce fredda delle stelle può suggerire il distacco e quasi l’ostilità del cielo (e degli dèi celesti), forse come reazione alla colpa di Orfeo che, voltatosi a guardare la sposa, aveva violato un patto divino, o per l’impossibilità di offrirgli ulteriore aiuto dopo il fallimento della catabasi.[48]

Soprattutto, sembra di intravedere nel nesso virgiliano gelidis sub astris un possibile presagio ‘astrologico’ di sventura,[49] allusivo all’imminente morte del cantore per mano delle donne dei Ciconi durante riti notturni (georg. 4,521 inter [...] nocturnique orgia Bacchi).[50] Già Catullo offriva un’immagine ‘sinistra’ delle stelle nel carme 66 – utilizzando anche il verbo evolvo, come qui Virgilio (georg. 4,509 evolvisse) –, in cui la Chioma di Berenice, personificata, sfidava l’ostilità degli altri astri rimpiangendo la sua condizione precedente (66,73–74 nec si me infestis discerpent sidera dictis / condita quin veri pectoris evolvam). Inoltre, un analogo presagio funesto, riferito similmente a una fonte di luce (una fiaccola) e al mito di Orfeo, compare poi in Ovidio, che narra come il dio Imeneo, accorso dal cielo ai lamenti del cantore dopo la perdita di Euridice, non riuscisse a mantenere viva la fiamma nuziale (met. 10,5–7 nec felix attulit omen; / fax quoque, quam tenuit, lacrimoso stridula fumo / usque fuit nullosque invenit motibus ignes).

A sostegno della lezione astris e dell’immagine delle stelle in opposizione agli Inferi in georg. 4,509 vi è poi l’analogia con la scena che precede la catabasi di Orfeo, speculare a quella in discussione. Infatti già all’inizio, nel primo momento di disperazione egli è descritto su una riva solitaria (v. 465 in litore) e in un ambiente aperto caratterizzato dalla presenza di un astro, il sole, indicato per metonimia con dies (v. 466), in contrasto con le tenebre del “bosco offuscato da nera paura” (v. 468) in cui poco dopo Orfeo entra per accedere all’Ade (georg. 4,464–469):

Ipse cava solans aegrum testudine amorem

te, dulcis coniunx, te solo in litore secum, 465

te veniente die, te decedente canebat.

Taenarias etiam fauces, alta hostia Ditis,

et caligantem nigra formidine lucum

ingressus Manisque adiit.

Si nota già qui l’attenzione del narratore all’aspetto temporale, ovvero al fatto che Orfeo sia intento a invocare Euridice “dall’alba al tramonto”, seguendo il moto (apparente) del sole (v. 466 veniente [...] decedente),[51] che sottolinea il protrarsi ininterrotto del canto. È quanto avviene anche al suo ritorno (4,508 septem [...] totos [...] ex ordine menses), ma con la differenza che nella prima fase il canto avviene di giorno (4,466 die), mentre in seguito di notte (con astris al v. 509). Ciò sembra corrispondere intenzionalmente e con finezza psicologica al diverso stato d’animo del protagonista: mentre il sole si addice al canto infelice ma non privo di speranza, i gelidi astri rappresentano la rassegnazione.

Tale successione tra giorno e notte nei lamenti dell’innamorato infelice sembra emulata da Ovidio nell’epistola di Fillide a Demofonte, in cui compaiono sia il sole, indicato ugualmente con dies, sia le “stelle”, definite anch’esse “fredde” (frigida sidera),[52] corrispondenze che avvalorano particolarmente gelidis sub astris nel passo virgiliano in questione (epist. 2,121–124):

Maesta tamen scopulos fruticosaque litora calco

quaeque patent oculis litora lata meis.

sive die laxatur humus, seu frigida lucent

sidera, prospicio, quis freta ventus [53] agat.

Ancor più chiara è l’allusione all’episodio di Orfeo da parte di Valerio Flacco nel passo in cui descrive la sofferenza di Medea utilizzando lo stesso nesso sub astris e aggiungendo una similitudine con il mondo animale, che ricorda quella virgiliana tra Orfeo e l’usignolo (8,453–456): tunc tota querellis / egeritur questuque dies eademque sub astris / sola movet, maestis veluti nox illa sonaret / plena lupis.

Considerando il contesto delle Georgiche, pare infine significativo, a favore di astris, il fatto che nella catabasi di Orfeo sia presente, accanto al sole e alle stelle, una terza indicazione ‘luminosa’, ovvero il riferimento alla “luce” che traspare dall’alto quando Orfeo, ormai vicino alla superficie, si volta a guardare la sposa (georg. 4,490 luce sub ipsa). Questo dettaglio sembra collegare abilmente la scena terrena iniziale a quella finale, contribuendo a creare una serie di tre elementi legati al cielo e alla luce – dies, lux, astra – corrispondenti ai tre momenti della narrazione (prima, durante e dopo la catabasi), in cui appare coerente ed efficace la presenza delle stelle alla fine.

D’altra parte, il confronto con l’altra catabasi virgiliana, quella di Enea (con la Sibilla), offre ulteriori indizi utili in proposito, come mostra l’analoga opposizione tra luce e tenebre quando l’eroe, al sorgere del sole (Aen. 6,255 primi sub lumina solis et ortus) – ovvero in un momento corrispondente all’espressione veniente die in georg. 4,466 –, affronta la “notte” di Dite (Aen. 6,268 ibant obscuri sola sub nocte per umbram; 272 et rebus nox abstulit atra colorem). Quanto alla fase successiva alla catabasi nell’Eneide, si è già detto delle analogie con quella di Orfeo per la presenza di elementi atmosferici e astronomici tipici della superficie terrestre, un astro e i venti (Aen. 7,8–9, citato sopra). A ciò si aggiunge il fatto che, poco dopo, nella scena di navigazione notturna di Enea lungo le coste della terra di Circe, il narratore ricorda come la maga stesse bruciando cedro odoroso “alle stelle notturne”, confermando la presenza degli astri anche in questo ritorno dagli Inferi (Aen. 7,13 urit odoratam nocturna in lumina cedrum).[54]

Accanto ai passi paralleli interni ed esterni a Virgilio presi in esame per aspetti descrittivi e narrativi, non meno significativo a favore di astris, nella ricerca del modello, appare il confronto intertestuale con Omero, già in parte segnalato, ma che offre un ulteriore e notevole elemento di confronto, suggerito anche dall’aspetto lessicale. Astrum è infatti un grecismo (da ἄστρον / ἀστήρ),[55] attestato a partire dall’Iliade e preferito qui da Virgilio sia al lat. sidus, assai frequente altrove nelle sue opere, sia a stella.[56] Il termine greco ebbe largo impiego in poemi didascalico-astronomici, quale l’opera di Arato,[57] da cui passò nei corrispondenti Aratea di Cicerone, in cui, come accennato, risulta traslitterato per la prima volta in latino, influenzando Virgilio e altri. A ciò si aggiunge il precedente influsso di Omero, primo modello per il topos della catabasi, emulato da Virgilio sia nel racconto del mito di Orfeo che in quello di Enea, pur con notevoli variazioni e sviluppi personali.[58]

In particolare l’esempio omerico appare rilevante per la scelta testuale in georg. 4,509 poiché nel libro 11 dell’Odissea, in cui è descritto il luogo in cui l’eroe greco approda per poter accedere all’Ade, come prescritto da Circe,[59] viene nominato proprio il “cielo stellato” mediante l’uso di un nesso, οὐρανὸν ἀστερόεντα (Od. 11,17),[60] che contiene l’aggettivo ἀστερόεις riproposto quasi letteralmente da astris nelle Georgiche (se si accoglie tale lezione), con una sola variatio personale, la sostituzione dell’aggettivo con il nome corrispondente, astrum.

Si tratta peraltro di un dettaglio che in Omero non caratterizza il luogo circostante, cupo e misterioso, direttamente – come in Virgilio –, bensì per antitesi in una frase che sottolinea l’assenza di stelle e l’atmosfera innaturale.[61] È la terra dei Cimmerii[62] ai confini del fiume Oceano, come narra il protagonista, “di nebbia e nube avvolti; mai su di loro / il sole splendente guarda coi raggi, / né quando sale verso il cielo stellato, / né quando verso la terra ridiscende dal cielo; / ma notte tremenda grava sui mortali infelici” (Od. 11,15–19):

ἠέρι καὶ νεφέλῃ κεκαλυμμένοι: οὐδέ ποτ᾽ αὐτοὺς 15

ἠέλιος φαέθων καταδέρκεται ἀκτίνεσσιν,

οὔθ᾽ ὁπότ᾽ ἂν στείχῃσι πρὸς οὐρανὸν ἀστερόεντα,

οὔθ᾽ ὅτ᾽ ἂν ἂψ ἐπὶ γαῖαν ἀπ᾽ οὐρανόθεν προτράπηται,

ἀλλ᾽ ἐπὶ νὺξ ὀλοὴ τέταται δειλοῖσι βροτοῖσι.[63]

Si tratta di un passo che offrì più di un elemento utile a Virgilio, ripreso e rielaborato in vari punti della fabula Orphei. Soprattutto è sottolineata l’oscurità del luogo attraverso la negazione della luce,[64] su cui Omero si sofferma in particolare a i vv. 17–18, descrivendo il sole nel suo levarsi e calare, un’immagine trasferita poi da Virgilio, come visto, nella prima scena in cui Orfeo canta la perdita di Euridice (georg. 4,466). Con altrettanta libertà poetica, l’emulo latino colloca il dettaglio omerico del “cielo stellato” nella scena successiva alla catabasi, anziché in quella iniziale, e per un’ambientazione (verosimilmente) notturna, mentre nell’Odissea le stelle fanno da sfondo al moto del sole senza riferimenti al giorno o alla notte (in Od. 11,17). Ne risulta, in Omero, un accostamento di sole e stelle apparentemente singolare, ma scientificamente preciso e acuto, giacché ricorda la loro costante compresenza in cielo, indipendentemente dalla visibilità.

Inoltre, in Omero compaiono in seguito altri riferimenti al cielo e agli astri nella conclusione della catabasi di Odisseo, in cui è descritto, come sopra accennato, il viaggio notturno fino all’isola di Eèa, dove si attende l’aurora (Od. 12,1–8).[65] Tale indicazione astronomica rivolta al nuovo giorno – diversamente da Virgilio georgico, che insiste sulla notte (ribadita nella scena dell’uccisione di Orfeo) – può spiegarsi con la diversa prospettiva del racconto. Nell’Odissea la narrazione del viaggio prosegue (come poi nell’Eneide, dove pure è annunciata l’aurora in Aen. 7,25) e il sorgere del sole è segno di prospettive future dopo l’esperienza ‘formativa’ della catabasi, mentre il mito di Orfeo si conclude di notte e tragicamente con la scomparsa del protagonista, privo di ogni speranza.

Dall’indagine fin qui condotta su paralleli greci e latini, precedenti e successivi al passo delle Georgiche in questione, risultano dunque vari elementi legati al tema della catabasi che avvalorano la lezione astris. Un contributo non meno interessante è fornito anche dalla ricezione da parte di Dante nella Commedia, poema strettamente legato a Virgilio per aspetti letterari, culturali e strutturali, e costellato di indicazioni astronomiche, oggettive e allegoriche,[66] tra cui spicca, come indicato all’inizio, la scelta dell’immagine delle “stelle” nei finali di ogni cantica. Anch’essa attesta l’importanza di questo elemento naturalistico e scientifico come simbolo di luce e vita, non solo terrena, ma ora anche spirituale legata alla provvidenza divina,[67] e può aver avuto un precedente classico come molti altri aspetti del poema, forse proprio il virgiliano astris, dato il comune topos.

L’affinità appare innanzitutto nel mondo ultraterreno dantesco più vicino a quello descritto nelle catabasi antiche, l’Inferno, in particolare nel momento in cui Dante e Virgilio, divenuto sua guida,[68] risalgono dall’oscurità in un’ascesa che culmina nella visione del cielo stellato (Inf. XXXIV 133–139):

Lo duca e io per quel cammino ascoso

intrammo a ritornar nel chiaro mondo;

e sanza cura aver d’alcun riposo 135

salimmo su, el primo e io secondo,

tanto ch’i’ vidi delle cose belle

che porta ’l ciel, per un pertugio tondo;

e quindi uscimmo a riveder le stelle.

L’immagine finale delle stelle sembra alludere agli “astri” virgiliani che sovrastano Orfeo, ritornato in superficie dagli Inferi, anche se la loro visione in Dante è accompagnata da uno stato d’animo diverso, felice e grato,[69] simile piuttosto a quello di Odisseo e di Enea dopo l’analoga esperienza. Con l’episodio di Orfeo nelle Georgiche vi è però un legame particolare, sottolineato da vari altri elementi comuni presenti nel passo, quale la luce intravista prima di giungere in superficie, qui attraverso un “pertugio” (Inf. XXXIV 138), che ricorda il virgiliano luce sub ipsa (georg. 4,490). D’altra parte, il fatto che Dante segua Virgilio per “secondo” nel risalire in superficie (Inf. XXXIV 136) imita il comportamento di Euridice, che procede dietro Orfeo nell’analogo percorso verso il mondo umano (georg. 4,487 pone sequens). Si tratta, tra l’altro, di un particolare che distingue la catabasi di Orfeo dalle altre antiche finora esaminate: infatti, diversamente, nella νέκυια omerica Odisseo è del tutto solo, mentre nell’Eneide il protagonista esce dall’Ade con la Sibilla cumana, accompagnati alla soglia da Anchise, senza che siano indicate le rispettive posizioni nel cammino, ma verosimilmente affiancati come al momento dell’ingresso (Aen. 6,896–897).[70]

Ciò rivela la specifica emulazione della fabula Orphei da parte di Dante,[71] confermando la sua conoscenza e l’utilizzo delle Georgiche[72] accanto a quelli più ampi ed evidenti dell’Eneide, specie del sesto libro. In particolare riguardo all’episodio di Orfeo, ulteriori allusioni sono state rilevate in Dante sia nelle parole di Pier della Vigna (Inf. XIII 35 “perché mi scerpi?”), che ricordano l’espressione usata da Virgilio per descrivere il cantore dilaniato dalle donne dei Ciconi in georg. 4,522 (discerptum [...] iuvenem sparsere per agros),[73] sia nella triplice ripetizione del nome di Virgilio stesso in Purg. XXX 49–51, che ricalca quella, altrettanto triplice, del nome di Euridice pronunciato dalla bocca di Orfeo, dopo la morte, nelle acque del fiume Ebro (georg. 4,525–527).[74]

L’influsso di Virgilio si manifesta anche nelle cantiche successive alla prima, benché Dante oltrepassi il modello con implicazioni teologiche sempre maggiori. Nel Purgatorio, in cui il poeta pagano latino continua a svolgere il ruolo di guida, anche le stelle continuano a rappresentare un Leitmotiv piacevole e confortante nel viaggio ultraterreno, oscillando tra il senso naturalistico – anche per la vicinanza di similitudini agresti e primaverili – e un nuovo valore spirituale. In particolare nell’ultimo verso, a proposito dell’avvenuta purificazione, il protagonista e autore si paragona a una “pianta novella”, richiamandosi verosimilmente a suggestive immagini virgiliane presenti in Bucoliche e Georgiche[75] (Purg. XXXIII 142–145):

io ritornai dalla santissima onda

rifatto sì come piante novelle

rinovellate di novella fronda,

puro e disposto a salire alle stelle. 145

Quanto all’ultima cantica, il Paradiso, costellata di termini riferiti alla luce,[76] si nota poco prima della chiusa un approccio ‘scientifico’ alla contemplazione del creato che mostra lo sforzo (vano) di Dante di intenderne il mistero come un “geometra” intento all’irrisolvibile problema della quadratura del cerchio (Par. XXXIII 133–136).[77] Ciò testimonia l’innato e ineludibile desiderio di conoscenza dell’uomo (e dell’autore),[78] che da una parte ricorda l’entusiasmo di Ulisse[79] e il fervore intellettuale del mondo antico, dall’altra mostra l’inadeguatezza umana nel voler comprendere ogni cosa e la necessità del sostegno della sapienza divina universale. Tale concetto sembra visualizzato proprio dalle stelle, che, nella loro ultima apparizione al termine del poema, non paiono più elementi autonomi e semplicemente “belli”, ma risultano inserite in un disegno provvidenziale che intreccia teologia e scienza (su base aristotelica), in cui il primo motore immobile è “l’amor che move” gli astri in quanto è amato[80] (Par. XXXIII 143–145):

ma già volgeva il mio disio e ’l velle

sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’amor che move il sole e l’altre stelle.[81] 145

Rispetto a questa professione di fede e di speranza in una superiore benevolenza divina, può sembrare lontano dall’autore il modello di Orfeo, eroe tragico nella versione del mito virgiliano, diversamente da Enea[82] e da Odisseo, cui Dante sembra avvicinarsi maggiormente per l’impegno morale e la sete di conoscenza. Tuttavia, si nota come egli condivida anche con il mitico cantore trace più di un interesse:[83] innanzitutto il tema dell’amore, legato per entrambi al viaggio ultraterreno, pur in forme differenti, rispettivamente come sentimento umano e assoluto per Orfeo, divino e universale per Dante, che lo eleva a strumento di salvezza; poi la vocazione per il canto ovvero per la poesia come espressione di pensieri ed emozioni, e come mezzo di glorificazione; e ancora, l’interesse cosmogonico, di cui Orfeo fu celebre rappresentante nel mito e che fu il motivo per cui, verosimilmente, fu posto da Dante tra gli spiriti magni nel Limbo, in particolare tra filosofi e scienziati (Inf. IV 139–142 “e vidi il buon raccoglitor del quale, / Dioscoride dico; e vidi Orfeo, / Tullio e Lino e Seneca morale; / Euclide geomètra e Tolomeo”).[84] In questo alto riconoscimento l’autore sembra emulare Virgilio che, nella catabasi di Enea, aveva posto Orfeo nei Campi Elisi nominandolo per primo e solennemente come il “sacerdote di Tracia”, ma esaltandolo piuttosto per le doti musicali[85] (Aen. 6,645–647 nec non Threicius longa cum veste sacerdos / obloquitur numeris septem discrimina vocum / iamque eadem digitis, iam pectine pulsat eburno).

Osserviamo infine che nell’ultimo canto del Paradiso traspare ancora, attraverso una similitudine, il ricordo di catabasi antiche, in particolare quella di Enea nel riferimento alla Sibilla cumana in Par. XXXIII 65–66 (“così al vento nelle foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla”), allusivo a Aen. 3,445–451,[86] che mostra la costante attenzione del poeta italiano per questo topos classico fino all’ultima cantica. Inoltre, si nota un riferimento all’impresa degli Argonauti (Par. XXXIII 94–96),[87] che attesta il persistere nella memoria dell’autore del mito narrato da Apollonio Rodio, in cui anche Orfeo, come detto, aveva un ruolo rilevante.

Considerando la ricchezza dei richiami fin qui segnalati alle catabasi di Virgilio, e attraverso queste (o con altra mediazione letteraria) a quella di Omero, di cui Dante appare ammiratore ed emulo,[88] sembra dunque verosimile annoverare anch’esse tra i modelli dei finali delle cantiche della Commedia per la menzione delle “stelle”. Tali autorevoli precedenti si aggiungono così al parallelo offerto dal mito della ninfa Aretusa nelle Metamorfosi di Ovidio, menzionato all’inizio, rispetto al quale offrono somiglianze altrettanto e ancor più stringenti per trama e personaggi: se infatti la vicenda della ninfa presenta un mito eziologico relativo a una fuga per un amore non corrisposto, compiuto da una figura femminile e divina, in Virgilio e in Omero si tratta di ‘missioni’ audaci e nobili compiute da esseri umani in mondi ultraterreni, più vicine all’esperienza idealmente vissuta e narrata da Dante.

Anche per Ovidio, peraltro, l’allusione nel finale dell’Inferno è avvalorata dal fatto che il poeta latino, che anche in altri passi propone l’immagine del cielo e degli astri come simbolo di vita,[89] era noto nel medioevo e apprezzato da Dante,[90] che lo include, dopo Omero e Orazio, nella “bella scola” del Limbo (Inf. IV 90); tra l’altro, fu per lui fonte di ispirazione per il racconto dell’ultimo viaggio di Ulisse.[91] D’altra parte, Ovidio si ispirò a sua volta alle catabasi di Virgilio, sia nel passo di Aretusa che nella sua personale rielaborazione del mito di Orfeo.[92] In particolare nel primo si notano varie analogie, oltre alle stelle, pur con variatio: se Virgilio nomina il rex tremendus dell’Ade (georg. 4,469), Ovidio introduce la regina Persefone (met. 5,507);[93] al nesso virgiliano Styx interfusa (georg. 4,480) corrisponde Stygio gurgite (met. 5,504); inoltre, anche Ovidio utilizza il dettaglio delle aurae per caratterizzare il luogo di arrivo di Aretusa,[94] come già Virgilio nel descrivere il mondo che circonda Orfeo dopo la catabasi.

In conclusione, l’esame delle immagini celesti e astrali proposte da Omero, Virgilio e Dante prima o dopo la catabasi, in opposizione agli Inferi e all’Inferno, mostra la presenza di un Leitmotiv ‘astronomico’ mantenuto e sviluppato nel tempo, con influssi ed effetti reciproci tra gli autori. Da un lato i paralleli offerti da Omero e Dante – oltre agli aspetti e ai legami interni evidenziati nel contesto virgiliano – avvalorano la lezione astris nella scelta tra le varianti alla fine delle Georgiche (4,509) nella catabasi di Orfeo; dall’altro, la presenza di stelle in Virgilio e Dante suggerisce un precedente comune, Omero, in cui emerge in effetti un dettaglio, il “cielo stellato”, recuperato e rielaborato liberamente dai successori, che lo hanno reso un elemento realistico e caratteristico della superficie terrestre opposta all’Ade. Omero sembra dunque aver dato avvio a una tradizione vivace e creativa nell’uso di elementi scientifici nelle narrazioni di catabasi, ed entrambi gli autori antichi – soprattutto Virgilio – sembrano poter essere considerati fonti e modelli di Dante nella Commedia anche sotto questo aspetto, risultando sottesi in ogni cantica in un rapporto di condivisione e di continuità, pur con nuovi messaggi spirituali, fino all’ultima immagine e parola “stelle”.

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Published Online: 2022-07-21
Published in Print: 2022-07-05

© 2022 Francesca Boldrer, published by Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston

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Downloaded on 29.3.2024 from https://www.degruyter.com/document/doi/10.1515/phil-2022-0108/html
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