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Eliminativismo semantico e competenza lessicale

Fabrizio Calzavarini
p. 181-196

Abstract

Secondo l’eliminativismo semantico [ME] (Recanati 2004), non è necessario postulare l'esistenza di significati o potenziali semantici stabili per spiegare le nostre prestazioni lessicali; il senso di una parola in una particolare occasione d’uso viene calcolato dal parlante sulla base della relazione di somiglianza che sussiste tra l’uso attuale e tutti gli usi passati di quella parola, senza la mediazione di una rappresentazione astratta del suo significato convenzionale. Se viene intesa come un'ipotesi sulla struttura e sull'acquisizione della nostra competenza lessicale, una delle implicazioni più immediate di questa posizione sembra essere la negazione dell'esistenza, nella nostra architettura cognitiva, della cosiddetta «memoria semantica», ovvero di un magazzino di memoria specificamente dedicato allo stoccaggio delle informazioni semantiche su un dato termine o parola. Più specificatamente, ME sembra implicare la tesi secondo cui tutte le prestazioni che sono state tradizionalmente ascritte alla memoria semantica potrebbero essere sorrette dai meccanismi cognitivi che si occupano della ritenzione e della gestione delle tracce mnestiche episodiche. In questo saggio, discuterò criticamente una serie di dati neuropsicologici, ovvero dati provenienti da pazienti cerebrolesi, che sembrano costituire una falsificazione empirica decisiva di questa posizione.

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Testo integrale

Introduzione

1Il fenomeno dell’ambiguità semantica, ovvero il fatto che a una stessa parola è associata una pluralità di sensi differenti, è una caratteristica distintiva del linguaggio naturale. Nella lingua inglese, ad esempio, più del 40 per cento dei vocaboli ha più di un significato convenzionale associato, e la percentuale sale vertiginosamente (80 per cento) se si considerano solo le parole ad alta frequenza d’uso. Nell’ambito dell’ambiguità semantica, si è soliti distinguere tra «omonimia», il caso in cui i diversi sensi di un lessema si trovano a essere codificati in un’unica forma ortografica solo per una serie di coincidenze etimologiche (per esempio, pesca per indicare il frutto e l’attività sportiva), e «polisemia», il caso in cui esiste una qualche correlazione etimologica e semantica tra i diversi sensi della parola polisemica, correlazione che si riflette nei giudizi intuitivi dei parlanti competenti. Come hanno fatto notare molti autori, anche alle parole che sembrano indubitabilmente monosemiche, come per esempio il verbo tagliare o il sostantivo leone, può essere attribuita una certa instabilità semantica e un certo grado di permeabilità alla variazione contestuale (si veda, per esempio, Searle 1980). Alla luce di questa diffusa sottospecificazione lessicale, è naturale pensare che la conoscenza delle modalità in cui il significato di una parola varia a seconda del contesto frasale o situazionale in cui viene essa viene impiegata sia una componente essenziale della competenza semantica lessicale. La «modulazione», ovvero il processo di scarto dall’insieme dei possibili valori semantici di un’espressione di quelli che non sono pertinenti per il contesto in questione, è dunque un elemento essenziale della nostra competenza lessicale (Recanati 2004).

2Com’è noto, il fenomeno della sottospecificazione lessicale ha motivato diversi approcci teorici latamente definibili «contestualisti», approcci che ridimensionano a vario titolo il ruolo del significato letterale associato alle parole nella determinazione delle condizioni di verità degli enunciati. In Literal Meaning (2004), François Recanati caratterizza quattro forme di teorie lessicali antiletteraliste, distinte a seconda del modo in cui caratterizzano il processo di modulazione, due delle quali appaiono particolarmente radicali: la teoria denominata Wrong Format view (WS) e quella denominata Meaning Eliminativism (ME). Entrambe le teorie considerano la modulazione come un fenomeno estremamente pervasivo, non ristretto alle parole comunemente considerate polisemiche, ma esteso a tutti i vocaboli ordinari («polisemy is the norm, rather than the exception»). Per entrambe le teorie, inoltre, essa è ineliminabile, nel senso che il contesto deve sempre intervenire per determinare il contributo di una parola all’interpretazione semantica di un enunciato. Le due posizioni differiscono tuttavia in merito a ciò che funge da “innesco” per i processi di modulazione. WS non nega che la modulazione prenda in input una certa quantità di informazione semantica, un qualche tipo di significato o «potenziale semantico» associato alle entrate lessicali, ma ritiene che essa sia o troppo astratta, o troppo ricca di informazione per fungere senza modifiche da costituente nel processo di interpretazione. Secondo ME, invece, non c’è alcun bisogno di postulare l’esistenza di significati convenzionali come input dei processi di modulazione; la modulazione è un processo di vera e propria generazione, nel quale il senso di una parola è interamente determinato ex novo nel contesto in cui avviene la comunicazione linguistica.

3Nonostante sembri andare incontro ad alcune difficoltà abbastanza macroscopiche, ME è stata difesa da diversi autori, tra cui lo stesso Recanati. In questo articolo, ci occuperemo di verificare la plausibilità empirica di ME se questa viene intesa come un’ipotesi sulla struttura e sull’acquisizione della nostra competenza lessicale. Procederemo nel modo seguente. Nella prima sezione, descriveremo le caratteristiche di ME e il tipo di concezione della competenza lessicale che essa sembra proporre. Nella seconda sezione, cercheremo di tradurre ME nel vocabolario specifico della neuropsicologia del linguaggio. Come vedremo, ME sembra implicare la negazione, o meglio una drastica revisione, della distinzione generalmente condivisa dai neuropsicologi tra «memoria semantica», ovvero il sistema di memoria dedicato allo stoccaggio delle informazioni sul significato convenzionale delle parole, e «memoria episodica», ovvero il sistema di memoria dedicato allo stoccaggio dei ricordi di eventi vissuti in prima persona. Più specificatamente, ME sembra implicare la tesi secondo cui tutte le prestazioni che sono state tradizionalmente ascritte alla memoria semantica potrebbero essere sorrette dai meccanismi cognitivi che si occupano della ritenzione e della gestione delle tracce mnestiche episodiche. Alcuni autori hanno correttamente suggerito che questa tesi mal si accorda con ciò che oggi sappiamo sui disturbi del linguaggio e della memoria a lungo termine (Gasparri 2013; Gasparri e Marconi 2016). Tuttavia, non sono stati discussi dati empirici a supporto di questa affermazione. Nell’ultima sezione del presente articolo, presenteremo e discuteremo criticamente una serie di dati neuropsicologici, ovvero dati che provengono da studi su pazienti cerebrolesi, che sembrano costituire una falsificazione decisiva di ME.

Eliminativismo semantico e competenza lessicale

4Per quanto insolita possa apparire, la teoria che Recanati denomina Wrong Format view, WF, rappresenta una posizione diffusa in linguistica e semantica cognitiva. Per esempio, nell’approccio proposto da Ruhl in On Monosemy (1989), alle parole è associata una sola rappresentazione semantica, ma essa è talmente astratta e schematica che deve necessariamente essere arricchita da processi guidati dalla conoscenza del contesto enunciativo. In modo simile, nella cosiddetta «Teoria della Pertinenza» (Relevance Theory), alle entrate lessicali corrispondono rappresentazioni semantiche massimamente sottospecificate, o schemi concettuali, la cui unica funzione è quella di fungere da base di partenza per i processi di modulazione, da “puntatori” alla conoscenza enciclopedica che può essere potenzialmente rilevante nelle varie situazioni conversazionali (per esempio, Carston 2002; Sperber e Wilson 1995). Queste concezioni condividono dunque l’idea che i significati, o rappresentazioni semantiche, associati alle entrate lessicali non abbiano il giusto formato per entrare direttamente nei processi di elaborazione linguistica. Esse sono troppo schematiche per non avere bisogno di ulteriore elaborazione, o troppo ricche per non aver bisogno di qualche processo di screening che selezioni l’informazione enciclopedica rilevante in una determinata occasione d’uso. Tuttavia, contrariamente a ME, queste concezioni non negano l’idea che esistano rappresentazioni mentali che codificano il significato delle parole, né negano che queste rappresentazioni svolgano un qualche ruolo nell’architettura cognitiva di un parlante competente. WF dunque si accorda con un’intuizione comune molto radicata, ovvero l’intuizione che esistano dei significati lessicali, e che questi significati siano conosciuti dal parlante competente.

5Come osserva Recanati, inoltre, per WF il

significato lessicale di una parola non costituisce solo l’input del processo di modulazione semantica; esso è anche l’output di un processo di induzione attraverso cui il bambino, o chiunque sta apprendendo il linguaggio, astrae il significato di una parola a partire dagli specifici sensi che questa parola esprime, o sembra esprimere, nelle varie situazioni d’uso che il bambino ha modo di osservare (Recanati 2004: 147).

6Il modello dell’apprendimento linguistico offerto da WF prevede dunque una doppia fase. Da una parte, il bambino non parte con una rappresentazione semantica predeterminata, ma la costruisce, attraverso adeguati processi di astrazione, a partire dall’osservazione di come una parola viene utilizzata dai membri della sua comunità. Dall’altra, la rappresentazione semantica così costruita costituisce l’input dei processi di modulazione attraverso cui il significato lessicale viene contestualmente determinato in una particolare occasione d’uso. WF si accorda in questo modo ad un’altra intuizione ampiamente condivisa, che secondo Recanati fa da sfondo alla concezione tradizionale (traditional picture) dell’apprendimento linguistico, secondo cui le parole sono associate nella testa del parlante a «condizioni di applicazione» astratte, o significati convenzionali, ottenute per generalizzazione a partire dagli usi linguistici a cui si è esposti durante la fase di apprendimento.

7La caratteristica distintiva della posizione che Recanati definisce Meaning Eliminativism, ME, invece, consiste nel rinunciare a entrambe queste intuizioni. In primo luogo, ME propone di semplificare il modello a due stadi di WS, sopprimendo lo stadio intermedio (la rappresentazione semantica) e determinando direttamente il senso che una parola assumerà in un contesto a partire dal senso che la parola ha assunto nelle precedenti occasioni d’uso – senza la necessità di astrarre il significato convenzionale di una data espressione linguistica (Recanati 2004: 147). In altri termini, ME propone di fondere i due processi di costruzione, l’astrazione e la modulazione: l’interpretazione di un’espressione α è il risultato di una singola operazione, che prende in input gli usi linguistici passati di α, e restituisce in output un’attribuzione contestualmente determinata di significato ad α. La modulazione è dunque un processo interamente creativo, in quanto non vincolato dal ventaglio di interpretazioni possibili di α codificati nella sua rappresentazione semantica.

8In secondo luogo, ME impone inevitabilmente una revisione dei modelli di apprendimento del linguaggio (Recanati 2004: 148-149). Si consideri il caso di un parlante P che deve imparare a utilizzare un predicato α. P osserva che il predicato α viene applicato da uno o più parlanti della comunità linguistica a una situazione S. Fino a questo stadio, il potenziale semantico di α per P coincide con il giudizio di applicabilità alla situazione S. P inizierà ad applicare α a nuove situazioni S1, S2, … Sn, sulla base del rapporto di somiglianza che esse intrattengono con S, e i suoi giudizi di applicabilità o non applicabilità di α a queste situazioni si baseranno sulle reazioni di approvazione o di disapprovazione dei membri della sua comunità linguistica. Al termine del periodo di apprendimento, P avrà osservato e memorizzato un insieme G di situazioni in cui il suo uso di α è stato incoraggiato dai membri della comunità. Secondo ME, il potenziale semantico di α non è determinato da nient’altro che da questo insieme G di legittime condizioni di applicazione, definite da Recanati «situazioni-sorgente». La futura applicazione di α da parte di P a una nuova situazione di applicazione («situazione target») sarà determinata dal giudizio di P relativo alla sua somiglianza con le situazioni sorgente.

9Come osserva Luca Gasparri (2013), è importante notare che i membri di G vanno concepiti come istanze situazionali, e non tipi situazionali; in altri termini, il potenziale semantico di una parola non è determinato dalle caratteristiche comuni delle situazioni in cui l’uso di quella parola è stato incoraggiato. Il confronto tra le situazioni sorgente e la situazione target deve essere concepito come non mediato da alcuno schema concettuale di questo tipo, altrimenti occorrerebbe reintrodurre esattamente quell’elemento di astrazione e generalizzazione che ME intende abolire. La decisione relativa all’applicazione o meno di una parola a una nuova situazione richiede invece un confronto completamente “puntuato”, nel senso che, in questo modello, le situazioni sorgente devono essere comparate con la situazione target una alla volta, generando al termine del processo un giudizio globale di somiglianza. Per questa ragione, è chiaro che per ME la competenza lessicale è dotata di un’indefinita flessibilità. Come è stato messo in luce da alcune note ricerche psicologiche, infatti, i giudizi di somiglianza umani sono pesantemente influenzati da una serie di fattori contestuali, oltre che dagli interessi soggettivi nelle diverse condizioni di giudizio (si veda, per esempio, Tversky 1977). Anche una volta che la situazione target è stata fissata, l’esito del giudizio di somiglianza tra essa e le situazioni sorgente rimarrà sottodeterminato: esso varierà infatti in funzione del soggetto, dei partecipanti alla conversazione, dei loro interessi, e così via. Sebbene questo modello dell’acquisizione e della struttura della competenza lessicale abbia certamente il pregio di accomodare tutti i fenomeni di dipendenza contestuale che costituiscono un’obiezione ai modelli tradizionali, la sua plausibilità come ipotesi sull’architettura cognitiva dei processi di elaborazione linguistica è, almeno a prima vista, dubbia.

La distinzione tra memoria episodica e memoria semantica

  • 1 Ovviamente, non tutte le prospettive filosofiche latamente definibili come “elimiminativismo semant (...)

10Per come è presentata da Recanati, ME ha l’aria di essere una tesi psicologica, e come tale sarà valutata in questo contesto1. Una delle sue implicazioni più immediate sembra essere la negazione dell’esistenza, nella nostra architettura cognitiva, di un magazzino di memoria specificamente dedicato allo stoccaggio delle informazioni semantiche su un dato termine o parola. Per valutare la plausibilità empirica di questa tesi, occorre tradurla nel linguaggio specifico delle ricerche che si sono occupate del linguaggio e della memoria umana. In ambito neuropsicologico, è opinione condivisa che la memoria non sia un processo cognitivo funzionalmente unitario, ma multicomponenziale. Una fondamentale distinzione è quella tra memoria a breve termine, o memoria di lavoro (working memory), che si occupa della ritenzione di quantità limitate di informazioni per un breve periodo di tempo (pochi secondi), e memoria a lungo termine (long term memory). Nell’ambito dei modelli di memoria a lungo termine, si è soliti distinguere tra memoria procedurale (procedural memory), adibita alla ritenzione di abilità motorie, cognitive, percettive acquisite in modo implicito e che si esprimono traducendosi direttamente in comportamenti, e memoria dichiarativa (declarative memory), che comprende ricordi che possono essere rievocati dal soggetto in modo volontario ed esplicito.

11In questo contesto, ciò che è maggiormente rilevante è l’ulteriore distinzione, presentata per la prima volta da Endel Tulving nel 1972, tra memoria semantica (semantic memory) e memoria episodica (episodic memory). Nella formulazione originale di Tulving, la memoria semantica è concepita come

una memoria necessaria al linguaggio […]; può essere considerata come un lessico mentale che organizza le conoscenze che una persona possiede circa le parole e gli altri simboli verbali, i loro significati e referenti, le relazioni esistenti tra essi, le leggi, le formule e gli algoritmi relativi alla manipolazione di questi simboli, concetti e relazioni (Tulving 1972: 383).

12Sono stati proposti, com’è noto, un buon numero di ipotesi computazionali allo scopo di modellizzare questa parte del sistema cognitivo, che vanno da variazioni più o meno articolate dell’approccio a reti semantiche proposto originariamente da Allan Collins e Ross Quillian (1969), a variazioni dell’approccio a prototipi discusso per la prima volta da Eleanor Rosh (1975). Secondo Tulving, la memoria semantica è distinta da un differente sistema cognitivo, la memoria episodica, che si occuperebbe di «ricevere e immagazzinare informazioni su singoli episodi o eventi temporalmente determinati […] conservati nei termini di un riferimento autobiografico ad altri contenuti della memoria episodica» (Tulving 1972: 385-386). Nonostante questa definizione di memoria episodica sia vaga, e nonostante i successivi tentativi di chiarificare la nozione non siano migliori, la distinzione che Tulving introduce è abbastanza intuitiva; la distinzione, cioè, tra un sistema di memoria deputato al significato convenzionale delle parole – che sta alla base di prestazioni come l’inferenza semantica, la ricerca di sinonimi, la definizione, ma anche il labeling di oggetti presentati attraverso la percezione – e un sistema di memoria deputato al ricordo di eventi singoli, esperiti in prima persona, le cui tracce mnestiche sono etichettate dal punto di vista delle coordinate spazio-temporali e sono ricche di informazioni contestuali.

13La distinzione proposta da Tulving non è motivata in prima istanza da considerazioni empiriche, e non è universalmente accettata in ambito neuroscientifico. Secondo alcuni autori, per esempio, la memoria semantica non sarebbe dotata di un’effettiva realtà cognitiva, ovvero di autonomia funzionale e anatomica, ma dovrebbe essere considerata una proprietà emergente della memoria episodica. Un modello computazionale con queste caratteristiche, denominato Minerva 2, è stato proposto e difeso dallo psicologo Douglas Hintzman a metà degli anni Ottanta (1986, 1988). Secondo Hintzman, la memoria a lungo termine può essere considerata come una vastissima collezione di tracce mnestiche episodiche, ognuna delle quali rappresenta il ricordo di un evento o di un’esperienza; ogni specifica esperienza è codificata in una traccia separata, anche se presenta forti somiglianze con esperienze precedenti. Non esiste un sistema semantico o concettuale separato; tutta l’informazione, sia essa di carattere specifico o generale, è recuperata dallo stesso magazzino di tracce episodiche che costituisce la memoria a lungo termine. In un modello del genere, sia la capacità di denominazione (la selezione della parola giusta in risposta a un dato oggetto o circostanza), sia la capacità di applicazione (la decisione se una data parola si applica o meno a un dato oggetto o circostanza) sono intese come procedure che non necessitano di «schemi d’astrazione» conservati nella memoria semantica.

14Nel caso della denominazione, il modello prevede a grandi linee un processo di questo genere. Quando ci si trova di fronte ad un nuovo oggetto o situazione x, una rappresentazione di x viene codificata nella memoria a breve termine e inviata alla memoria a lungo termine. Qui viene confrontata con tutte le tracce episodiche conservate in memoria, e ogni traccia è attivata in accordo al grado di somiglianza con x. L’intero sistema di memoria è attivato in parallelo, e agisce come una sorta di cassa di risonanza, producendo in risposta alla rappresentazione in input una “eco” che è contraddistinta da due valori caratteristici: l’intensità, che dipende dal numero di tracce episodiche che vengono effettivamente attivate, e lo schema di attivazione, che dipende da quali specifiche tracce episodiche sono attivate. Intensità e schema di attivazione determinano l’esito del processo di riconoscimento (se x è riconosciuto, e che cosa è x), sulla cui base il sistema cognitivo procederà alla selezione della parola giusta, ovvero alla denominazione. Nel caso dell’applicazione, invece, il modello prevede che a una data entrata lessicale (per esempio, cane) sia associato un gruppo di tracce mnestiche episodiche relative ai contesti in cui la parola è stata correttamente utilizzata; di fronte a un nuovo oggetto x, il sistema cognitivo procede alla decisione se applicare o meno la parola sulla base di un processo di confronto e somiglianza tra x e le tracce episodiche conservate in memoria. Secondo Hintzman, tutte le prestazioni cognitive che Tulving ascrive al sistema semantico possono essere eseguite da un sistema costruito secondo i principi di funzionamento di Minerva 2. Dal punto di vista cognitivo, dunque, non c’è alcuna ragione per postulare l’esistenza di una memoria semantica separata; essa potrebbe essere un prodotto emergente del funzionamento della memoria episodica.

15È chiaro che esistono molte affinità tra ME e una prospettiva di questo genere. Come osserva lo stesso Recanati (2004: 147, 152), il modello di Hintzman permette di tradurre nel linguaggio neuropsicologico le implicazioni empiriche che ME sembra inevitabilmente portarsi dietro, oltre che di offrire una dettagliata implementazione computazionale. In questo senso, secondo ME, non è necessario postulare l’esistenza della memoria semantica come componente della competenza lessicale: le rappresentazioni degli usi lessicali passati nella testa del parlante, ovvero le situazioni sorgente, possono essere viste come tracce mnestiche conservate nella memoria episodica, e il confronto tra le esse e la situazione target può essere descritto nei termini previsti dal modello di Hintzman. Hintzman è convinto che Minerva 2 offra innegabili vantaggi, sia nello spiegare l’estrema flessibilità del sistema cognitivo, sia nell’accomodare alcune caratteristiche dei giudizi di categorizzazione umani, come l’effetto di prototipicità. Tuttavia, egli ne mette anche in luce alcuni limiti abbastanza evidenti, il più importante dei quali è senza dubbio determinato dalla trattabilità psicologica. Questo problema è condiviso ovviamente anche da ME: la concezione della struttura della competenza lessicale che propone, infatti, sembra richiedere lo stoccaggio di una quantità di informazione lessicale episodica (tutti gli usi passati) che è troppo elevata per essere psicologicamente trattabile (si veda anche Gasparri e Marconi 2016). Questa considerazione generale potrebbe essere già sufficiente per considerare la prospettiva difesa da Recanati piuttosto irrealistica. L’obiettivo di questo articolo, tuttavia, consiste nel mettere in luce un’ulteriore difficoltà per ME, che deriva dal tentativo di ridurre le prestazioni lessicali a prodotto del sistema di memoria episodica; come si vedrà nel prossimo paragrafo, infatti, esistono alcuni dati empirici piuttosto robusti che sono difficilmente spiegabili sulla base di questo assunto.

Eliminativismo semantico: i dati della neuropsicologia

16La difficoltà che vogliamo mettere in luce è la seguente. Se si prende sul serio l’immagine della competenza lessicale offerta da ME, dovrebbe esistere una stretta covarianza tra disturbi della memoria episodica e capacità lessicali. In altri termini, ogniqualvolta che un danno cerebrale produce un degrado completo delle informazioni episodiche relative al proprio passato (eventi o situazioni vissute in prima persona), comprese verosimilmente le informazioni relative ai contesti in cui una parola è stata utilizzata correttamente, ciò dovrebbe determinare un degrado nelle capacità di denominare oggetti o situazioni del mondo, oltre che di applicare le parole a oggetti e situazioni del mondo. Inoltre, nella misura in cui ME intende essere una teoria completa della competenza lessicale, il danno di memoria episodica dovrebbe implicare un degrado anche di altre capacità connesse con l’uso delle parole, come la capacità di trovare sinonimi o la capacità di fornire definizioni delle parole date. Tuttavia, se si rimane ai dati che provengono dalle ricerche neuropsicologiche, non c’è ragione di ipotizzare una covarianza di questo tipo (si veda anche Gasparri 2013; Gasparri e Marconi 2016). Al contrario, sembra esistere una chiara dissociazione doppia tra prestazioni lessicali tradizionalmente ascritte alla memoria semantica, come il labeling di oggetti, la definizione di parole o la ricerca di sinonimi, e disturbi di memoria episodica. Ciò suggerisce in modo abbastanza naturale l’esistenza di due sistemi cognitivi autonomi e indipendenti, che possono essere lesi indipendentemente, e che hanno realizzazioni corticali almeno parzialmente distinte.

  • 2 È importante osservare che un numero significativo di studi neuropsicologici ha suggerito l’esisten (...)

17Discutiamo ora i dati empirici a sostegno di questa affermazione. La letteratura neuropsicologica sui disturbi del linguaggio presenta, com’è noto, numerose tipologie di danneggiamenti selettivi, come ad esempio la compromissione della capacità di codificare suoni verbali in assenza di deficit percettivi, o la perdita della capacità di formare enunciati sintatticamente corretti pur in presenza di abilità fonologiche e semantiche nella norma. Esistono numerose patologie neurocerebrali che possono dare esito a un selettivo degrado nella capacità di applicazione e denominazione lessicale. Il disturbo si presenza in modo selettivo in due tipi di sindromi, l’agnosia percettiva e l’afasia specifica per modalità (per una rassegna, si veda Farah 2004). I soggetti affetti da questo tipo di sindrome perdono progressivamente la capacità di riconoscere e/o etichettare linguisticamente un oggetto familiare presentato attraverso il tatto o la vista, per esempio un cucchiaio o uno spazzolino, nonostante i loro sistemi percettivi primari siano assolutamente integri. Allo stesso modo, essi non sono più in grado di determinare se una parola di uso comune pronunciata dallo sperimentatore, per esempio la parola cane, o la parola automobile, è correttamente associabile all’immagine o all’oggetto che viene loro mostrato nelle condizioni sperimentali. Deficit non selettivi di denominazione e applicazione si osservano comunemente in concomitanza con condizioni di deterioramento cognitivo cronico progressivo, come nel caso di un tipo di demenza frontotemporale denominato «demenza semantica», o in conseguenza di danni vascolari (emorragici o ischemici) che colpiscono i lobi temporali o frontali, in particolar modo dell’emisfero sinistro (per una rassegna introduttiva, si veda Lambon Ralph 2014). In queste sindromi, il deficit di denominazione e applicazione si associa generalmente ad un degrado nelle capacità di portare a termine compiti che richiedono la conoscenza delle relazioni semantiche tra gli elementi del lessico: la ricerca di sinonimi, il recupero di una parola a partire da una definizione fornita dallo sperimentatore, la produzione di nomi di una data categoria semantica, ecc.2. La condizione contraddistinta dalla compresenza di questi sintomi, nel contesto di un risparmio sostanziale delle altre abilità linguistiche (fonologiche, sintattiche ecc.), viene spesso definita «perdita del significato delle parole», o «disturbo semantico» (Zannino 2003).

18Ciò che è importante sottolineare in questo contesto è che, in disturbi lessicali di questo tipo, l’osservazione clinica suggerisce che la memoria episodica sia generalmente conservata. In altri termini, nonostante il generale degrado delle abilità linguistiche, i ricordi episodici prossimi e remoti di questi pazienti, e la possibilità di acquisirne di nuovi, sembrano preservati. Le ricerche cliniche utilizzano numerosi paradigmi sperimentali che coinvolgono prestazioni ascrivibili alla memoria episodica; molto utilizzate sono per esempio le interviste autobiografiche strutturate, che cercano di far rievocare al paziente – in modo esplicito o implicito – ricordi di vissuti strettamente personali, anche molto lontani nel tempo (retrograde memory test), o i compiti che testano la capacità dei soggetti di ritenere nuove informazioni a carattere episodico, come la memorizzazione di liste di nomi o di parole (anterograde memory tests). In questo contesto, particolarmente interessanti sono i compiti che richiedono di rievocare ricordi autobiografici associati a parole pronunciate dallo sperimentatore. Come mette in luce chiaramente un recente articolo di rassegna pubblicato da Michael Hornberger e Olivier Piguet (2012), i pazienti affetti da disturbo semantico dimostrano di riuscire piuttosto bene in queste tipologie di test. Nella demenza semantica, ad esempio, i soggetti sono in grado di ricordare eventi recenti senza alcun problema (per esempio, Graham e Hodges 1997; Graham et al. 2003; Hou et al. 2005), così come sono in grado di apprendere liste anche lunghe di termini. Allo stesso modo, un recente studio di Margaret McKinnon e colleghi (2008) ha messo in luce come i soggetti affetti da afasia non-fluente, che causa un profondo deficit semantico-lessicale, presentano prestazioni buone o normali in test di memoria episodica. Questa dissociazione potrebbe far pensare che le capacità lessicali di denominazione e di applicazione, così come le prestazioni lessicali in genere, siano sorrette da un meccanismo cognitivo che può essere selettivamente danneggiato, che contiene un tipo di informazione specificamente semantica, e che non ha direttamente a che fare, contro l’ipotesi di ME, con recupero di informazione episodica.

19Tuttavia, è abbastanza chiaro che questa dissociazione non può costituire un’obiezione decisiva. Per poter falsificare il modello della competenza lessicale proposto da ME, come abbiamo visto a inizio paragrafo, è necessario poter dimostrare la dissociazione inversa, ovvero il danneggiamento selettivo della memoria episodica nel contesto di un risparmio sostanziale delle abilità di denominazione e di applicazione (così come di definizione di parole, ricerca di sinonimi, e così via). Prestazioni danneggiate in compiti di memoria episodica sono comuni, ovviamente, nelle sindromi di tipo amnesico; in ambito neuropsicologico, si è soliti distinguere tra «amnesia anterograda», che impedisce la ritenzioni di nuove informazioni dopo l’evento patologico, e «amnesia retrograda», che impedisce la rievocazione di eventi precedenti all’evento patologico (per una trattazione introduttiva, si veda, per esempio, Papagno 2010). L’eziologia di queste sindromi è varia (encefaliti, episodi ischemici, lesioni vascolari ecc.), ma il danneggiamento dell’ippocampo e della parte mediale del giro temporale anteriore sembra essere una caratteristica comune. Nelle forme più severe, la sindrome amnesica cancella ogni traccia mnestica del vissuto autobiografico, sia implicita, sia esplicita, dagli eventi più recenti a quelli più remoti. Ciò che occorrerebbe poter dimostrare in questo contesto, dunque, è che i soggetti affetti da sindrome amnesica presentano, di norma o almeno abbastanza frequentemente, abilità linguistiche e lessicali soddisfacenti.

20Per quanto insolito, questo fenomeno è ben attestato in letteratura. Elizabeth Warrington e Rosaleen McCarthy (1988), per esempio, descrivono il caso del paziente Rfr, che presentava una grave amnesia retrograda e autobiografica, ma era perfettamente in grado di definire parole nuove, entrate nel vocabolario nell’ultimo ventennio (per esempio thatcherismo, Aids), oltre che di etichettare linguisticamente oggetti d’uso comune (utensili da giardino, forchette ecc.). Warrington e McCarthy ipotizzano una distinzione tra un sistema analogo a un «vocabolario», preservato nel paziente, e un sistema «cognitivo e dinamico» in cui sono conservati i ricordi di eventi vissuti in prima persona. In modo simile, Ennio De Renzi e Federica Lucchelli (1990) riportano il caso del paziente PI, un uomo di 26 anni che, in seguito a un severo trauma cerebrale, aveva subito una totale perdita di memoria retrograda:

PI mostrava un’incapacità totale di ricordare episodi autobiografici risalenti a prima del trauma, indipendentemente dal tempo trascorso. La sua amnesia includeva visi e luoghi familiari e non risparmiava la conoscenza autobiografica. […] In sostanza, il paziente non possedeva più alcuna informazione relativa a eventi della sua vita precedente, nemmeno nella forma di mera conoscenza di fatti spogliati di qualsiasi sensazione di esperienza personale, a meno che questi fatti non gli fossero stati riferiti dopo il trauma (De Renzi e Lucchelli 1990: 1340).

21Tuttavia, in modo sorprendente, PI non mostrava alcun deficit di natura linguistica. Egli presentava infatti un eloquio fluente e lessicalmente ricco, ed era perfettamente in grado di fornire definizioni delle parole data (per esempio, acqua: «un liquido che bolle a 100 gradi», seta: «un tessuto prodotto dai bruchi»). Egli aveva ottenuto risultati paragonabili a quelli dei soggetti di controllo in un test di fluenza semantica, in cui doveva produrre quanti più nomi possibili di entità appartenenti a una categoria in un dato lasso di tempo. Inoltre, egli era riuscito perfettamente in un test di denominazione di immagini di oggetti e animali familiari (74/85) e in un test di applicazione di parole a immagini.

22Queste osservazioni cliniche possono essere generalizzate. Come osservano Marcel Kinsbourne e Frank Wood (1975), infatti, l’amnesia non colpisce aspetti del linguaggio come il lessico o la sintassi, né la capacità di riconoscimento e denominazione di stimoli percettivi. Inoltre, in modo interessante, quando si richiede agli amnesici di associare un episodio autobiografico a una parola concreta (per esempio, dire quale fatto specifico ricordi loro la parola bandiera), essi producono pochissimi ricordi personali, mentre le associazioni semantiche non legate a episodi autobiografici sono comparabili a quelle degli individui sani utilizzati come soggetti di controllo (Wood et al. 1982, esperimento 1). Questo tipo di dissociazione costituisce un’obiezione piuttosto seria a ME: se è vero che la competenza lessicale consiste essenzialmente nel recupero di materiale episodico conservato in memoria, e dunque dipende essenzialmente dall’integrità della memoria episodica, questo tipo di fenomeni non dovrebbe essere possibile.

23Esiste inoltre una serie di dati neuropsicologici che è ancora più difficile da spiegare sulla base dell’assunto che la competenza lessicale sia questione di memoria episodica. Wood e colleghi riportano il caso di una bambina, colpita all’età di quattro anni da encefalite erpetica, la quale, nonostante un grave difetto amnesico, dimostrò un buon apprendimento scolastico. Questo fenomeno è comune nel caso di una sindrome infantile piuttosto rara, causata generalmente da un episodio ipossico alla nascita, o da un’intossicazione da monossido di carbonio, denominata «amnesia dello sviluppo» (developement amnesia). I soggetti affetti da questa sindrome sviluppano una grave amnesia retrograda e anterograda già nei primi anni di vita, con conseguente incapacità di ritenere in memoria qualsiasi tipo di esperienza personale. Tuttavia, il loro apprendimento delle abilità linguistiche non ne risente. Faraneh Vargha-Khadem e colleghi (1997) descrivono, per esempio, tre casi di questo genere, tra gli 8 e i 14 anni:

Le situazioni che pongono maggiori problemi ai tre pazienti possono essere divise in tre categorie: (1) Spaziali: Nessuno dei tre pazienti è in grado di orientarsi affidabilmente negli ambienti che dovrebbero essere loro familiari, o hanno risposto gli oggetti personali; (2) Temporali: Nessuno dei tre pazienti è ben orientato temporalmente, e si deve loro costantemente ricordare appuntamenti od eventi organizzati, come particolari lezioni o attività extra-curricolari; (3) Episodiche: Nessuno dei tre pazienti può fornire un resoconto affidabile delle attività svolte durante il giorno, ricordare messaggi o conversazioni telefoniche, programmi televisivi, visite ricevute, e così via. […] Questi deficit amnesici sono così profondi e invalidanti che nessuno dei tre pazienti può essere lasciato solo (Vargha-Khadem 1997: 377).

24Nonostante la sindrome amnesica si fosse presentata già nei primi anni di vita, tutti e tre i soggetti avevano imparato a leggere e scrivere senza alcun problema, avevano un rendimento scolastico relativamente normale e non presentavano problemi nelle situazioni conversazionali quotidiane. In condizioni sperimentali, inoltre, essi avevano superato brillantemente compiti di etichettatura linguistica di stimoli visivi e uditivi, oltre che compiti di definizione di parole date:

Per esempio: Q: Che cosa significa vantarsi? Beth: «Se qualcuno fa qualcosa e ne fa sfoggio, si vanta di esso». Q: Cosa significa santuario? Jon: «Un posto sicuro; un posto che fornisce riparo in cui ognuno può andare». Q: Cosa significa intralcio? Jon: «Quando ci provi ma sei di ostacolo in ogni modo». Q: Cosa significa ostruire? Kate: «Mettersi di mezzo» (Vargha-Khadem 1997: 379).

25Questo tipo di fenomeno è stato descritto diverse volte in letteratura (Maravita et al. 1995; Vargha-Khadem et al. 1997, 2001; Gadian et al., 2000; Baddeley et al., 2001), e non risulta di semplice interpretazione; il fatto che lo sviluppo del linguaggio sia possibile anche in condizioni di amnesia anterograda totale, infatti, è un dato abbastanza sorprendente. Una possibilità è che la memoria episodica di questi soggetti sia sufficientemente preservata per registrare gli usi linguistici durante la fase di apprendimento. Come osservano Vargha-Kadhem e colleghi (2001), tuttavia, è più facile ipotizzare l’esistenza di un sistema cognitivo autonomo, funzionalmente adibito alla codifica delle informazioni di carattere semantico-lessicale; questo sistema sarebbe attivo già nei primi anni di vita di un bambino, e si prenderebbe in carico l’apprendimento linguistico anche in caso di danno grave e persistente al sistema di memoria episodica.

26Rispetto a quelli precedenti, questi ultimi casi di dissociazione pongono un problema ancora più grave per ME, dal momento che sembrano dimostrare che non solo la struttura, ma anche l’acquisizione della competenza lessicale è un processo in una certa misura indipendente dall’integrità e dal funzionamento della memoria episodica. Inoltre, essi portano ulteriore conferma a favore dell’idea che una parte della memoria umana sia dedicata allo stoccaggio di rappresentazioni che codificano il significato “convenzionale” delle parole, e che queste rappresentazioni vengano mobilitate durante i processi di natura lessicale. Se questi dati devono essere presi sul serio, e non esistono ragioni per non farlo, la plausibilità empirica di ME sembra essere fortemente messa a rischio.

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Note

1 Ovviamente, non tutte le prospettive filosofiche latamente definibili come “elimiminativismo semantico” possono trattate alla stregua di tesi psicologiche. Per esempio, questo non è certamente il caso della teoria difesa da Travis (si veda, per esempio, Travis 1981).

2 È importante osservare che un numero significativo di studi neuropsicologici ha suggerito l’esistenza di una dissociazione doppia tra prestazioni di denominazione e applicazione, da una parte, e prestazioni che richiedono la conoscenza di relazioni semantiche tra elementi del lessico, dall’altra (per rassegne, si vedano Marconi 1997; Calzavarini 2017). Questi dati forniscono forte sostegno empirico alla distinzione tra due aspetti della competenza semantica lessicale, ovvero la «competenza inferenziale» e la «competenza referenziale», proposta e discussa dal filosofo Diego Marconi in Lexical Competence (1997). La realtà cognitiva della distinzione tra competenza inferenziale e competenza referenziale non pone particolari complicazioni per la tesi empirica sostenuta nel presente articolo, e dunque verrà lasciata in secondo piano.

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Per citare questo articolo

Notizia bibliografica

Fabrizio Calzavarini, «Eliminativismo semantico e competenza lessicale»Rivista di estetica, 67 | 2018, 181-196.

Notizia bibliografica digitale

Fabrizio Calzavarini, «Eliminativismo semantico e competenza lessicale»Rivista di estetica [Online], 67 | 2018, online dal 01 avril 2018, consultato il 18 avril 2024. URL: http://journals.openedition.org/estetica/2792; DOI: https://doi.org/10.4000/estetica.2792

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Autore

Fabrizio Calzavarini

Dip. di Filosofia e Scienze dell’Educazione, Torino – fabrizio.calzavarini@unito.it

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