Viaggi terre universi
Massimo Cacciari, Il cammino di Francesco
Franco Farinelli, Il globo, il viaggio, la tavola
Guido Traversa, Metafora e realtà del viaggio
Leonardo Magnante, Il viaggio come dispositivo di formazione e dissoluzione del soggetto nell’horror americano tra gli anni Trenta e Settanta
Saggi
Giuseppe D’Acunto, L’istinto del metaforizzare. Dorfles interprete di Vico
Andrea Nicolini, Profanazioni. Bataille lettore di Proust
Perniola’s studies
Rodrigo Duarte, Perniola’s Tropicalism
Recensioni
Anna Camaiti Hostert, Enzo Antonio Cicchino, Trump e moschetto. Immagini, fake news e mass media: armi di due populisti a confronto (Milosh F. Fascetti)
Gianpiero Vincenzo, Starbucks a Milano e l’effetto Don Chisciotte. I rituali sociali contemporanei (Caterina Di Rienzo)
Marcella D’Abbiero (a cura di), L’immane potenza del negativo. Problemi e risorse (Pasquale De Rosa)
Michele Ciliberto, Niccolò Machiavelli. Ragione e pazzia (Francesco Patrone)
“Quando mi veniva rivolta una domanda, dovevo superare tutti quei mari e quei deserti prima di dare alcun segno di vita. In fondo ero presente come il rappresentante di un lontano viaggiatore.” (Jünger, Ludi africani)
Nei brevi passaggi, così densi, in cui Henry Duparc, in L’Invitation au voyage, volge in canto l’incipt baudeleriano – “Mon enfant, ma soeur, / Songe à la douceur / D’aller là-bas vivre ensamble! /… Au pays qui te ressemble!” – sembra cristallizzarsi la dinamica che lo anima, sospendersi nella visione del suo impossibile. Dinamica che è poi quella che attraversa, al fondo, ogni idea di viaggio-distacco: l’inquieto ‘saggiare’ le proprie radici, ri-flettere su di esse, sulla loro tenuta. Messa alla prova che suona dapprincipio, implicite, come critica. Non solo delle proprie, ma dell’idea di radice tout court. “Un matin nous partons, le cerveu plein de flamme, / le cœur gros de rancume et de désirs amers, / et nous allons, suivant le rythme de la lame, / berçant notre infini sur le fini des mers” (Le voyage).
È un aspetto, questo dell’idea di viaggio, che più che entrare in tensione finisce col convergere con l’altro più immediato e visibile, posto in rilievo dalla nostra ‘civiltà delle macchine’ sin dai suoi esordi, della ricerca di nuove conoscenze: la curiositas mai sazia dell’Ulisse dantesco – che implica poi, più o meno consapevolmente, l’anelito alla conquista di un’esperienza, per così dire, intensificata, ‘porta’ all’inaudito. È la figura archetipica, lo sfondo ideale in cui l’uomo faustiano, che orienta la sua Zivilisation verso “un’espansione” che superi “ogni limite geografico o materiale”, per dirla con Spengler, si dispone e celebra il proprio inesausto ricercare. I due aspetti si intrecciano e convergono, nel senso che il secondo finisce col trovare nel primo la sua ratio. Per un movimento nel quale, tuttavia, la critica di ogni salda radice non si intende a sua volta fundus-fondamento, messa in forma di un’essenza, ma – a partire dallo sradicante dell’affermarsi planetario del tecnico-economico nella modernità – esito ‘meramente’ storico. L’intera opera di Simone Weil, che ha colto con lucidità questa direttrice, e contro essa, in direzione opposta, ha voluto riaffermare nel suo ultimo scritto la necessità dell’Enracinement per ogni essere umano, ha mostrato, come in un dialogo a due tra il ventriloquo e il suo alter ego di legno, l’assoluta ou-topicità di quest’ultima visione. Proprio negli scritti precedenti l’Enracinement si trovano infatti i motivi della ineffettualità a cui era destinato quel suo discorso etico.
“Les vrais voyageurs sont ceux-là seuls qui partent pour partir” (Baudelaire, Le voyage). Qual è il fine del viaggio? Nel perimetro tracciato dagli elementi evocati sinora, pure interni alla sua idea, non si danno risposte – ché anzi nell’impossibilità di una risposta al quesito essi sembrano tenersi insieme. Si dovrà allora considerare l’altra dimensione in cui il viaggiare prende forma, quella rivolta verso l’interiore. Non si è animati, qui, dall’obiettivo di infrangere ogni limite geografico o materiale, ma da una forza centripeta, interna, che mira al proprio centro. D’altra parte, anche l’itinerario mistico – anzi: esso in primo luogo – prende le mosse dalla negazione di ogni possibilità di mondano radicamento. È la “durissima disciplina” che richiede questo viaggio: “angoscia per il proprio stato, per la propria ‘casa’ di origine, rinuncia, spezzarsi-aprirsi all’ignoto, concentrazione paziente su ogni passo” (Cacciari). ‘Presupposto’ al viaggio nell’interiore è tuttavia l’intimo assenso a un principio specularmente opposto rispetto a quello dell’attrazione per la varietà del mondo, a quell’“ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore”, che spinge Ulisse al suo vagare: il disincanto, certo venato di amarezza, nei confronti della possibilità di trovare la vera quiete, una propria patria nel mondo, così come, a fortiori, d’un ‘arricchimento’ infinito attraverso nuove esperienze. Detto con l’ironica sobrietà pascaliana: “quando mi son messo qualche volta a considerare il vario agitarsi degli uomini e i pericoli e le pene a cui si espongono, a Corte, in guerra, donde nascono tante liti, passioni, imprese audaci e spesso malvage, eccetera, ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa, dal non saper starsene in pace, in una camera”. Questo disincanto apre certo a figure molto diverse tra loro. Muovendo dalla consapevolezza che “es ist die Seele ein Fremdes auf Erden”, qualcosa di estraneo è l’anima sulla terra (Trakl, Frühling der Seele), la ricerca in interiore può assumere proprio la forma della Wanderschaft, dell’essere in cammino, com’è per il caso del viandante trakliano. Ma anche – e in primo luogo – quella del fare il vuoto in sé, il lasciar-spazio, movimento in un punto immobile, con-centrazione silenziosa in vista dell’irrompere pure mai pre-vedibile di quella luce in cui si colga finalmente che “le cose tutte quante hanno ordine tra loro” (Paradiso, I, 103). Ma naturalmente, anche nel caso del mistico, quel ‘volgere le spalle al mondo’ in quanto iniziazione volta al farsi-nulla dell’amor proprio, quell’arrischiato, sempre incerto ritrarsi in un non-luogo, non offre alcuna garanzia di raggiungimento della vera quiete.
È possibile pensare insieme questi due lati? Solo diametrale opposizione tra il viaggiare incantati dalla varietà del mondo, dalla sua bellezza, perdersi nella vertiginosa differenza delle sue forme, ma poi, anche, tentare di costruire un qualche sapere a partire dall’esperienza che ne facciamo – e quello rivolto all’interiore, che a sua volta può assumere così tanti volti, da quello mistico, che ne costituisce in un certo senso la forma-ideale, sino a quel viaggio a ritroso nella memoria, negli strati e nei fondi in cui, tanto discontinua, si è sedimentata, di cui la Recherche proustiana rappresenta mirabile simbolo?
In effetti, nell’uno troviamo segni, tracce dell’altro. Come si mostra in Baudelaire: chi si versa nell’esteriore, se non l’anima stessa, alla ricerca di sé nelle cose, negli altri esseri – desiderosa di ritrovarsi in essi, di rispecchiarsi nel loro ‘ordine’, propriamente: di trasfigurarsi? E in cosa si imbatte l’introspezione, la discesa in sé, se non nei linguaggi del mondo, nei frammenti che compongono l’individuale? Se questo può costituire lo sconforto del mistico, il suo sconcerto di fronte al labirintico del suo percorso, è anche l’aspro terreno della lotta per la conquista del proprio, per muovere finalmente dalla periferia al centro di sé stessi, per dirla nel lessico weiningeriano ripreso dal giovane Lukács. Il ritrovare le dissonanze del mondo al proprio fondo, se per un verso è solo il primo stadio nell’anelito al compimento dello spirituale, per l’altro è anche l’ironico esito a cui dà luogo, ad es., il tentativo montaigneano di comporre un ‘dipinto’ del sé.
Tutto ciò naturalmente non significa che si tratti di un unico movimento. Ma può darsi tensione etica verso il proprio, verso il Centro, solo in quella regione dischiusa dal desiderio che si protende al nuovo, all’inaudito, che spinge a far crescere sempre nuove esperienze. L’una non può che richiamare l’altra. “Con solo qualche spicciolo in tasca e niente che m’interessasse in particolare qui a terra, pensai d’andarmene un po’ per mare, a vedere la parte del mondo ricoperta dalle acque. È un modo che ho per scacciare la malinconia e regolare la circolazione del sangue” (Melville, Moby Dick).
Luigi A. Manfreda
Ma io perché venirvi?
…
Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Forse pochi argomenti come il viaggio, l’idea stessa del viaggiare, hanno diviso uomini illustri, letterati, filosofi, pensatori, scrittori che, nel corso dei millenni, si sono schierati a favore o contro, ammirati sostenitori gli uni o decisi detrattori gli altri. Già l’etimologia stessa della parola che deriva dal provenzale viatge e dal francese antico veiage e prima dal latino viatĭcum ossia “provvista per il viaggio”, lascia intendere un’impresa che richiedeva l’esigenza di determinati preparativi, non cosa da affrontare con leggerezza. Spostarsi da un luogo all’altro, un punto da cui partire verso un altro cui giungere, conteneva in sé la lunga fase transitoria in cui tutto poteva accadere, un vuoto da riempire pieno di incognite e punti oscuri; chi tentava questa avventura lasciava il certo per l’incerto. Ma è giusto adoperare il verbo al passato? Un tempo forse era tutto più rischioso, pericoli ora non attuali e che ci paiono ormai superati e perfino banali, hanno turbato chi si esponeva a tali cimenti; oggi invece tutt’altri imprevisti possono frapporsi ad uno scorrevole svolgersi dell’evento escursionistico. In definitiva, mutatis mutandis, le motivazioni sono sempre le stesse.
Certo fin dall’antichità, nel mito e nella storia, molti sono stati quanti per voglia di conoscere, per sfida, per volontà di conquista
si sono inoltrati in imprese al limite delle possibilità umane. Tra questi Giasone e gli Argonauti, uomini pronti ad affrontare qualsiasi peripezia pur di conquistare il Vello d’oro, manto dai poteri magici, soprattutto quello di curare le ferite, virtù di grande valore in quei tempi guerreschi; Dedalo col figlio Icaro e l’ardita, catastrofica impresa del volo grazie alle ali di cera con le tragiche conseguenze che conosciamo; Ulisse e le tante avventure celebrate da Omero prima del ritorno in patria, poi l’impresa estrema, la folle trasvolata oltre le Colonne d’Ercole per esplorare il mondo sconosciuto quello senza gente, un uomo divorato dalla sete di conoscenza, pertanto proprio per la sua hýbris (ὕβϱις) condannato da Dante.
Fuori dal mito, restando però nell’ambito della storia, non si può non citare Marco Polo (1254-1324) e il suo percorso sulla Via della seta per raggiungere il Catai. Egli, predecessore di tutti gli esploratori dei secoli successivi, ha influenzato ed ispirato studiosi e audaci navigatori, non ultimo lo stesso Cristoforo Colombo, e quanti hanno tratto spunto dalle sue memorie contenute nell’opera Il Milione (1298), per alimentare il fascino dell’ignoto e la possibilità di svelare misteri e incognite grazie ad audaci imprese.
Altro viaggiatore veneziano, forse meno noto, ma altrettanto attratto dai percorsi sul mare, fu Alessandro Magno (1538-1576), che ha lasciato un solo scritto la Relazione del viaggio di Cipro, di quel’isola e di altri viaggi, fino al ritorno in Venezia di un patricio veneto. Relazione della città e territorio di Brescia fatta dal medesimo essendo camerlingo (1557-1565), steso, quando rientrato in patria, si dedicò alla vita politica. Il fascino di quel tipo di avventure era ormai dilagante.
Diverso fattore stimolante, ma altrettanto coinvolgente, fu quanto spinse Francesco Petrarca (1304-1374), peregrinus ubique, come amava definirsi, a raggiungere varie mete. Nato ad Arezzo dove si trovava il padre esule, fin dall’infanzia fu coinvolto con la famiglia, a vari spostamenti prima in Toscana, poi a Carpentras in seguito, per motivi di formazione culturale a Montpellier e Bologna. Dopo la morte del padre che aveva indirizzato i figli a studiare diritto nel prestigioso ateneo felsineo, si apre per il poeta la possibilità di dedicarsi alla cultura classica, non solo, ma la vera svolta si colloca durante il soggiorno in Provenza ad Avignone, luogo di sapere cosmopolita, dove tra l’altro avvenne il fatidico incontro con Laura (forse Laura de Noves). In questa fase, matura quell’attrazione sempre più spiccata per la letteratura in genere, in ispecie quella del mondo antico che farà di lui uno studioso preumanista, anticipatore del metodo filologico moderno. I suoi percorsi per l’Europa lo portano quindi alla ricerca insaziabile di testi antichi, delle auctoritates.Tra tante località anche molto amate, egli tuttavia non ebbe mai una vera patria, ma rimase cittadino del mondo, pur restando ancorato alla profonda esigenza di pace interiore, spiritualità e solitudine. Nel novero delle diverse mete visitate non manca neppure un’impresa del tutto particolare, quella che viene comunemente ricordata come l’Ascesa al monte Ventoso effettuata col fratello Gherardo nel 1336; una scalata anche allegorica riportata nelle lettere Familiares. Raggiungere la cima è infatti una salita verso l’alto, verso Dio e un allontanamento dai beni materiali. Anche qui, come altrove, sono presenti reminiscenze virgiliane e citazioni di Ovidio, due poeti molto amati.
Nei secoli molti altri letterati furono attratti dalla sete di conoscenza, dal desiderio di sperimentare nuove esperienze. Il Settecento è ricco di testimonianze in tal senso. Il viaggio è anche un percorso immaginario, puramente letterario o realmente effettuato; diventerà perfino ‘sentimentale’ in Laurence Sterne (1713-1768) attraverso l’Italia e la Francia (1768), oppure sarà di sola fantasia come il Candide (1759) di Voltaire (1694-1778) o I viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift (1667-1745).
Goethe e Alfieri invece ci hanno lasciato testimonianze interessanti dei rispettivi percorsi in Italia e in Europa, dove già si intravvede una sensibilità squisitamente preromantica.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) col suo Viaggio in Italia (1816,1817) si pone alla ricerca dell’antichità classica del mondo antico e delle sue testimonianze nella patria dell’arte e della bellezza; mentre Vittorio Alfieri (1749-1803) nella Vita scritta da esso (1806) guarda soprattutto al nord Europa con un’ansia di conoscere e un’irrequietezza che anticipa tempi successivi. Lo spirito libero dell’astigiano trova in questa dimensione dell’essere che ben prelude all’immagine dei protagonisti delle sue tragedie, un inconfondibile profilo.
Motivazioni di altra origine sono quelle che spingono Charles Darwin (1809-1882) a percorrere sulla nave Beagle un tragitto intorno al mondo, una vera e propria circumnavigazione del globo, una spedizione scientifica che lo porterà dalle Canarie alle isole di Capo Verde, alle coste del Sud America, alle Falkland alle Galapagos, all’Australia. Ebbe così modo di osservare, con l’occhio attento del naturalista, antropologo, biologo, animali e vegetali, esseri viventi, tra cui l’uomo, che lo portarono a formulare la teoria evoluzionistica basata sulla ereditarietà pubblicata nell’opera L’origine delle specie per selezione naturale (1859). Quanti meglio riuscivano ad adattarsi al territorio potevano sopravvivere e garantire quindi la continuazione del genere umano. E’ la scienza dunque il sentimento primo del suo agire.
Esperienza letteraria del tutto innovativa è quella che ci propone Italo Calvino (1923-1985) nel romanzo Le città invisibili (1972), dove l’autore sperimenta, grazie ad una tecnica combinatoria, derivante dagli studi su strutturalismo e semiotica, una sorta di riscrittura del Milione di Marco Polo, un ritorno quindi in una dimensione surreale, quasi alle origini della letteratura di viaggio, verso luoghi immaginari intesi come una fuga dal reale caotico, oscuro e labirintico. Qui è forse possibile trovare un rifugio, un approdo assurdo, ma sicuro, ove placare i disagi esistenziali del presente. Queste città tuttavia sono nient’altro che lo specchio di un mondo molteplice, multiforme ed eterogeneo, disordinato e confuso. Così conclude infatti lo scrittore: “Di una città non apprezzi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà ad una tua domanda”.
Fin qui i sostenitori; di diverso parere molti altre autorevoli testimonianze.
Che vantaggio possono dare i viaggi? Non costituiscono un temperamento o un freno alla brama dei piaceri, non reprimono l’ira, non smorzano gl’indomabili impulsi dell’amore e, infine, non guariscono nessuna malattia dell’anima. Con i viaggi essa non riacquista il senno, non si libera dell’errore, ma rimane un momento attratta dalle novità, come un bimbo che per un breve tempo si fermi ad ammirare luoghi sconosciuti. Inoltre, quello stesso correre qua e là acuisce l’instabilità e la confusione di uno spirito già turbato, e lo rende più debole e volubile. Così costoro, dopo aver tanto bramato di giungere in un luogo, con brama ancor maggiore l’abbandonano, e migrano altrove come uccelli; se ne vanno più presto che non siano venuti (Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, 62-65).
Un giudizio pesante questo espresso dal filosofo Lucio Anneo Seneca (4 a.C.-65) nell’epistola letteraria indirizzata all’amico Lucilio; e poco dopo:
Viaggiando, potrai conoscere altri popoli, vedere nuove forme di monti, pianure di ampiezza mai vista, fertili vallate solcate da perenni corsi d’acqua, e anche qualche fiume di misteriosa natura, come il Nilo, che d’estate è rigonfio di acque, e il Tigri, che si sottrae alla vista percorrendo un tratto sotto terra, per poi tornare imponente alla superficie; come il Meandro, argomento gradito a tutti i poeti, che nei suoi frequenti avvolgimenti si riavvicina al suo alveo, ma prima di sboccare in se stesso si volge dall’altra parte. Ma non potrai diventare né migliore né più savio (ibidem).
La tematica del viaggio è affrontata in una dimensione esistenziale: non è certo cambiando il luogo che è possibile liberarsi dal malessere spirituale che l’uomo ha dentro di sé, per sottrarsi ad esso non serve raggiungere altre mete, posti diversi qualunque essi siano; perciò “Se vuoi sfuggire ai mali che ti assillano, non devi andare in un altro luogo; devi essere un altro uomo”. E infine il consiglio fondamentale: “Animum debes mutare non caelum, devi cambiare animo, non cielo”.
Una simile esigenza di interiorità è quella che aveva già espresso Lao Tzu pensatore cinese del VI secolo a.C., fondatore del taoismo e figura forse addirittura leggendaria. Egli sosteneva tra l’altro che il saggio non viaggia e tuttavia conosce, perché è entro se stessi il percorso più completo ove è possibile trovare la pienezza dell’essere, non nelle cose esterne.
Tra quanti non furono eccessivamente coinvolti in avventure escursionistiche, contrariamente all’amico Petrarca col quale condivise l’amore per i classici, la passione filologica e la visione preumanistica, Giovanni Boccaccio (1313-1375), si limitò a spostamenti di tipo formativo, alternando soggiorni napoletani e fiorentini. Qualche altra tappa in alcune città italiane per motivi di studio, fu tutto quanto comprende il suo carnet de voyage, tant’è che si ritirò infine nella sua casa di Certaldo.
Fra i temi trattati nel Decameron (1349-1353), non manca quello legato ai rischi connessi all’imprevedibilità delle vicende umane. In particolare la seconda giornata ci presenta due novelle, quelle di Andreuccio da Perugia (II-5) e di Landolfo Rufolo (II-4) strettamente connesse alle disavventure cui può incorrere chi, come mercanti e commercianti, si sposta per motivi di lavoro. Figure positive quelle legate a questo ceto sociale che, tuttavia, sono coinvolte in disastrose esperienze in quanto tutto è aleatorio e dominato dal caso, non ci sono certezze, poiché il rischio è sempre dietro l’angolo.
Serie motivazioni sono anche quelle che spingono Ludovico Ariosto (1474-1533) a dichiararsi convinto sostenitore di una vita sedentaria. Al servizio del cardinale Ippolito d’Este fu costretto controvoglia a numerose missioni, causa sempre di fastidi e disagi finché quando, nel 1517, il suo principale venne creato vescovo di Buda in Ungheria, egli si rifiutò decisamente di seguirlo e fu licenziato. Quel paese lontano è visto dal poeta come meta dannosa per la sua salute, località fredda e insidiosa nociva sotto tutti i punti di vista. La Satira I (1517) ne è la testimonianza più tangibile.
Passato a lavorare presso il duca Alfonso I d’Este, le cose non migliorarono certo in quanto, anche per motivi economici, fu costretto ad accettare la nomina di governatore della Garfagnana, regione impervia, ostile, infestata dai briganti. Tornato finalmente a Ferrara poté finalmente realizzare il sogno di ritirarsi nella casa che aveva acquistato in contrada Mirasole, dove si trasferì col figlio Virginio e con l’amata consorte Alessandra Benucci. Soddisfatto della nuova dimora, piccola, ma adatta alle sue esigenze. “Parva, sed apta mihi” volle infatti far incidere sulla facciata. Qui si dedicò alla definitiva stesura e revisione del suo capolavoro, l’Orlando furioso e, in una dimensione puramente fantastica, poté effettuare quei tragitti che nella realtà aveva rifuggito. L’episodio del paladino Astolfo sulla luna, pianeta dove egli si reca per recuperare il senno di Orlando e ove trova tutto ciò che viene smarrito sulla terra, ci mostra un luogo riconducibile all’ambito fantastico, di pura immaginazione. Qui l’Ariosto, in una sorta di immedesimazione col protagonista della vicenda, tra serietà e ironia, vuole fustigare vizi e vanità umane. In groppa all’ippogrifo il poeta si concede di percorrere un viaggio assai più fruttuoso di quelli compiuti ‘qua giù’, forse per lui meno faticoso, ma certo proficuo e significativo. E’ una sorta di rivincita anche per tutti i bocconi amari subiti nella vita, ogni cosa trova una sua collocazione:
…
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco
…
Ami d’oro e d’argento appresso vede
in una massa, ch’erano quei doni
che si fan con speranza di mercede
ai re, agli avari principi, ai patroni.
Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede,
ed ode che son tutte adulazioni.
Di cicale scoppiate imagine hanno
versi ch’in laude dei signor si fanno.
(Orlando Furioso, canto XXXIV, ottave 75/77)
Così si esprime anche il filosofo Blaise Pascal (1623-1662):
Tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola cosa: dal non sapersene stare tranquilli in una stanza. (Pensieri, 1670, postumo)
Pure Giuseppe Parini (1729-1799), è amante della vita tranquilla. Nelle Odi (1758-1790), oltre l’impegno morale e civile su temi particolarmente importanti, emerge la figura di colui che si trova a suo agio nella quiete di un’esistenza appartata, senza troppi inciampi, quella che propone ne La vita rustica dove loda la vita dei campi, tema ripreso poi anche ne La salubrità dell’aria, in cui alla Milano malsana contrappone la natia Brianza, locus amenus preferibile a qualsiasi altro posto. La città infatti è anche luogo insidioso, pieno di pericoli come quelli che il poeta incontra sulle vie innevate, ricordati appunto ne La caduta.
Giacomo Leopardi (1798-1837) invece, nelle sue innumerevoli riflessioni, si esprime anche a favore dell’apertura mentale che il viaggio favorisce; è pure un modo per sfuggire la noia del quotidiano, nell’illusione di poter evadere dal ‘nulla in cui siamo immersi’.
Il tema ritorna spesso, sia nello Zibaldone (1817-1832), sia nelle Operette morali (1827). Per il poeta un’esigenza primaria era quella di uscire dall’ambiente chiuso di Recanati, e dall’austera dimensione familiare, una fuga verso altri luoghi, località cui guardare come approdi di libertà. Quando finalmente riuscirà ad ottenere il permesso di lasciare la casa paterna nel 1822, per recarsi presso gli zii a Roma, si imbattè in una serie di delusioni; la città, l’ambiente, le persone, perfino i congiunti, i vari aspetti del vivere, tutto gli parve così lontano da come aveva immaginato, profondamente distante dalle aspettative. L’unico momento positivo ed emotivamente coinvolgente fu la visita alla tomba di Torquato Tasso nella chiesa di Sant’Onofrio al Gianicolo. In una lettera al fratello Carlo scrisse infatti: “…fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l’unico piacere che ho provato a Roma”. Un comune destino di infelicità aveva cementato i reciproci destini. Dopo la cocente delusione ancora più pesante fu il ritorno a casa. Altre successive tappe videro un’alternanza tra varie mete e soggiorni in Italia – Milano, Bologna, Firenze, Pisa -, e il ‘natio borgo selvaggio’. Solo a Napoli, presso l’amico Antonio Ranieri, trovò una effimera, fugace distensione. Al profondo anelito di libertà non corrispose nulla di concreto. Le aspettative frustrate furono il volto più vero dei sogni coltivati e non realizzati.
Ancora differente l’approccio di Ugo Foscolo (1778-1827) alle peregrinazioni cui fu costretto per il destino di esule. La sua fu una vita di reiterate fughe, un incessante vagabondare non per scelta, ma causato da pressanti motivi politici. Questo continuo errare tuttavia è anche legato allo spirito romantico perennemente agitato da intime passioni, da una irrequietezza connessa alla sua stessa natura profondamente sradicata, sottesa da una continua tensione che gli impedisce di trovare pace in alcun luogo. Una patria reale, ideale e sempre rimpianta è tuttavia la Grecia, sede di profondi sentimenti e di pregnanti valori neoclassici. La ‘chiara e selvosa Zacinto’, isola natale del costante rammarico per la consapevolezza di non potervi più fare ritorno, sarà un motivo ricorrente di ispirazione poetica. Venezia, Padova, Firenze, Milano, Bologna, Genova, Pavia tra le mete italiane dl suo vagare, ma anche l’estero, la Francia, poi la Svizzera e infine Londra, che come lui stesso avevo presagito sarà l’ultima, definitiva tappa.
Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia…
…
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.
(Ugo Foscolo, Sonetti, A Zacinto, 1803)
Importanti testimonianze del suo sentire di esule si ricavano anche dai sei volumi dell’Epistolario (1749-1827), ampia fonte di notizie personali, ma anche pagine di interesse politico, letterario, filosofico.
Abbandonai la mia patria per vivere libero: rinunziai per l’indipendenza, ch’ho sempre adorato, alla gloria, ai commodi, ai miei genitori (Ugo Foscolo, Epistolario).
Anche qui emerge l’anelito frustrato al ritorno in patria:
…al finir del verno io voglio andare nel paese dove son nato; dove hanno bisogno di me ed io di loro; e baciare quella sacra terra, e pregarla che raccolga una volta meco tutte le persone che mi son più care. (ibidem).
Senso di incertezza, anelito verso qualcosa di indefinito e sostanziale perplessità è quella che aveva espresso il filosofo e pensatore, politico francese Michel de Montaigne (1533-1592). “A chi mi domanda la ragione dei miei viaggi rispondo che so bene quello che fuggo ma non quello che cerco”. Una posizione intermedia la sua tra fautori e detrattori dell’opzione itinerante. Egli viaggiò anche per motivi di salute in Francia, Svizzera, Germania, Italia. Nella sua opera principale gli Essais (1588), novello Socrate, si propone di conoscere l’uomo, ma soprattutto se stesso.
Tre autori vissuti tra Ottocento e Novecento appartenenti a differenti nazionalità, si trovano pienamente concordi nel celebrare la vita sedentaria. Joris-Karl Huysmans (1848-1907), esponente del decadentismo francese, Thomas Mann (1875-1955), scrittore e saggista tedesco, Fernando Pessoa (1888-1935), poeta e critico portoghese, ebbero in comune la convinzione di evitare quanto più possibile ogni forma di spostamento. Laudatores di un modus vivendi poco dinamico.
A che pro muoversi, quando si può viaggiare così magnificamente su di una sedia?
(Joris Karl Huysmans, Controcorrente, 1884).
E poi ancora:
Nessun dubbio che si possa altrettanto facilmente godere chimeriche gioie, simili in tutto alle vere; nessun dubbio, ad esempio, che si possano compiere lunghissimi viaggi standosene nel cantuccio del fuoco: basterà, occorrendo, stimolare la fantasia pigra o restìa con la suggestiva lettura di lontani viaggi. (ibidem)
Anche il vincitore del premio Nobel per la letteratura (1929), benché costretto per motivi vari a spostarsi dalla Germania, ebbe a sentenziare che “Chi è felice non si muove” (Thomas Mann, I Buddenbrook, 1901), il che è un’ evidente immagine di quanto il viaggio sia visto come insoddisfazione del presente, una sorta di evasione verso altre mete alla ricerca di un possibile approdo a migliori soluzioni esistenziali.
Infine il prolifico aforista lusitano si domanda convinto:
Che cos’è viaggiare e a cosa serve viaggiare? Qualsiasi tramonto è il tramonto; non è necessario andarlo a vedere a Costantinopoli.
(Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine, 1982 (postumo)
…
A che scopo viaggiare? A Madrid, a Berlino, in Persia, in Cina, in entrambi i Poli, dove sarei se non in me stesso, e nella stessa sfera delle mie sensazioni? (ibidem)
Tra i vari frammenti dell’opera molti sono dedicati allo stesso tema, cioè l’assoluta inutilità di questo tipo di avventure e perfino inutili sono i testi che le descivono:
Capisco che viaggi chi è incapace di sentire. Per questo i libri di viaggio sono sempre così poveri come libri di esperienza, e valgono soltanto per l’immaginazione di chi li scrive. (ibidem)
E poi un parere ancora più pesante:
L’idea di viaggiare mi nausea. Ormai ho visto tutto ciò che non avevo mai visto. Ormai ho visto tutto ciò che non ho ancora visto. Il tedio del costantemente nuovo, il tedio di scoprire, sotto la falsa differenza delle cose e delle idee, la perpetua identità del tutto, la somiglianza assoluta fra la moschea, il tempio e la chiesa, l’uguaglianza della capanna al castello, lo stesso corpo strutturale nell’essere un re vestito e un selvaggio nudo, l’eterna concordanza della vita con se stessa, la stagnazione di tutto quello che vivo si sta verificando, solo per il fatto di muoversi. (ibidem)
Dietro si nasconde solo una totale, completa banalità: “Viaggiare? Per viaggiare basta esistere”.
…
La sensazione di liberazione, nasce forse dai viaggi? Posso averla andando da Lisbona a Benefica e provarla in modo più intenso di colui che va da Lisbona fino alla Cina, perché se la liberazione non è dentro di me, secondo me, non è da nessuna parte. (ibidem)
Duro quindi anche il giudizio su quanti sono protagonisti di tali esperienze
Viaggino coloro che non esistono! Per chi non è niente, scorrere, come un fiume, deve essere la vita. Ma coloro che pensano e sentono, quelli che sono desti, l’orribile isteria dei treni, delle automobili, delle navi, non li fa né dormire né svegliare. (ibidem)
…
Soltanto l’estrema debolezza dell’immaginazione giustifica che ci si debba muovere per sentire. (ibidem)
Una sentenza definitiva questa che non lascia spazio ad alcun ripensamento.
In modo si simile si era anche espresso nel 1833 lo studioso e poeta tedesco Friedrich Rückert (1788-1866): ”Chi si sente a suo agio in casa, non va peregrinando lontano. I molti viaggi di scoperta nel mondo dimostrano l’insoddisfazione universale”.
E ancora una testimonianza sul disagio del vivere.
Perfino più decisa e perentoria l’affermazione dell’esponente dell’età vittoriana John Ruskin (1819-1900) critico d’arte, studioso di pittura, scultura, architettura rinascimentale il cui pensiero influenzerà la sua epoca e quella successiva, il quale così si esprimeva: “Questa è la vera natura della casa: il luogo della pace, il rifugio non soltanto dal torto, ma anche da ogni paura, dubbio e discordia”. (John Ruskin, Sesamo e gigli, 1865).
Tutt’altro spirito è quello che emerge dalle pagine del romanzo Tre uomini in barca (per non parlar del cane) (1889) di Jerome K. Jerome (1859-1927), scrittore umorista britannico. L’autore non si pone in apparenza grandi interrogativi esistenziali, non riflessioni sulla maniera di condurre la vita, qui o altrove, ma il registro narrativo è quello comico, di una comicità non necessariamente ‘bassa’, quanto piuttosto quotidiana e tipicamente colloquiale propria dello humor inglese. I protagonisti, tre amici in compagnia del cane Montmorency, dal sentire ‘umano’ e partecipe alla vicende dei compagni, decidono di risalire in barca il fiume Tamigi. Questo percorso, preparato e vissuto come quello proprio di una grandiosa spedizione, riserva una serie di imprevisti e avventure, colpi di scena divertenti e continue risate. Accanto alle esilaranti gags non manca però anche qualche considerazione più ‘seria’ sul progresso e i suoi risvolti negativi sulla natura e sull’uomo sempre più legato a pregiudizi e conformismo:
Quanta gente carica la propria barca, arrischiando continuamente di farla arenare, con un monte di stupidità che si credono essenziali al piacere e alla comodità della gita, ma che in realtà son ciarpame inutile. (Jerome K. Jerome, Tre uomini in barca, Mi, 1934)
…
Getta via il ciarpame, amico! Che la tua barchetta sia leggera, e porti soltanto ciò di cui hai bisogno. (ibidem)
Jerome conclude:
Siamo tutti burattini. La nostra voce è la voce del burattinaio nascosto: il Costume. Perfino i nostri moti di passione e la nostra sofferenza sono retti dai suoi fili. (ibidem)
Ma io perché venirvi?
Il verso citato in apertura ci riporta al più famoso viaggio immaginario della letteratura. Dante Alighieri (1265-1321) nel II^ canto dell’Inferno si domanda con qualche perplessità, chi dovrebbe autorizzare questa sua impresa, non essendo lui né Enea al quale fu riservato questo privilegio quando era ancora vivo perché all’origine come futuro capostipite quindi di Roma sede dell’Impero e poi del Papato, né san Paolo che vi andò, scelto da Dio, in quanto sostenitore e divulgatore della fede cristiana. Il dubbio rivela tutta l’incertezza di un momento particolarmente difficile che il poeta teme di dover affrontare senza nessuna giustificazione; sente quasi addirittura di peccare di hýbris (ὕβϱις), quella superbia così pericolosa che pone l’uomo ad essere simile se non uguale alla divinità, stigmatizzata anche nel personaggio di Odisseo nel canto XXVI dell’Inferno.
Ben altro e più rilassante momento è quello vissuto nell’atmosfera di sogno che troviamo nel sonetto
“Guido,i’ vorrei che tu e Lapo ed io” tratto dalle Rime (1284). Qui il poeta immagina di trovarsi in compagnia degli amici Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e di tre donzelle fiorentine su un vascello che procedesse secondo i desideri di ognuno, parlando sempre d’amore; il tutto grazie ai poteri del “buono incantatore”. Una magia irripetibile ben distante dalle ansie e dallo struggimento dell’esilio, delle mete vissute come ovvia condizione negativa con appassionata nostalgia per la patria e l’estraneità verso un mondo non suo, in luoghi sentiti e percepiti come del tutto estranei e sentimentalmente lontani.
In definitiva ritroviamo quelle paure legate alla ‘follia’ del viaggio
Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle. (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, canto II, vv. 34-35).
Angì Perniola