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Il lavoro si interroga principalmente sul significato di «verità effettuale della cosa». Dopo aver esaminato la nozione di vero da un punto di vista semantico e gnoseologico – nel primo senso, è vero, secondo Machiavelli, il discorso che riscontra le cose, nel secondo, il discorso che si fonda sull’esperienza, intesa come esperienza sia diretta (vissuta e osservata) che mediata (letta e ascoltata) –, giunge a definire la «verità effettuale della cosa» come «il discorso storicamente e empiricamente verificabile negli effetti, o nei fatti, che concerne la cosa in oggetto, ossia lo stato». A questo si contrappone «l’immaginazione della cosa», il discorso che, mancando del riscontro delle cose e di esperienza dello stato, non può che ricorrere all’immaginazione, la quale svolge pertanto la funzione di un surrogato. Ma l’immaginazione non è solo fonte di inganni, in un altro senso svolge un ruolo altamente positivo: l’immaginazione che muove dal riscontro permette di individuare un «rimedio» possibile per «questo guasto mondo»; e consente al principe, nella situazione contingente, di agire e apparire anche contro i dettami di una certa mortale, se necessario. L’individuazione di un rimedio possibile e l’attuazione di un agire necessario, contrapposti al pericolo incombente della rovina, richiedono la conoscenza delle regole e leggi dell’agire politico. La verità come coerenza, coerenza del discorso che risulta dall’esame dell’agire storico e politico, ossia coerenza delle argomentazioni machiavelliane che traducono in proposizioni l’agire politico, nella fattispecie, quello del principe, è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per preservarsi dalla rovina e mantenere uno stato.
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