Skip to content
BY 4.0 license Open Access Published by De Gruyter (A) November 16, 2021

Naomi A. Weiss, The Music of Tragedy. Performance and Imagination in Euripidean Theater, Oakland (University of California Press) 2018, XII, 284 S., ISBN 978-0-520-29590-2 (geb.), $ 95,–

  • Marco Ercoles EMAIL logo
From the journal Klio

Reviewed Publication:

Weiss Naomi A. The Music of Tragedy. Performance and Imagination in Euripidean Theater University of California Press Oakland 1 284 2018 $ 95,– ISBN 978-0-520-29590-2 (geb.)


Il volume rappresenta la rielaborazione della dissertazione dottorale dell’autrice, condotta presso il Department of Classics della University of California sotto la guida di Mark Griffith e Leslie Kurke. Esso si inserisce in quel filone di studi che, negli ultimi anni, ha dedicato attenzione agli aspetti musicali della tragedia (basti qui richiamare solo gli studi di Andrew Barker, Eric Csapo, Albert Henrichs e Peter Wilson). In particolare, W(eiss) concentra la sua attenzione su quattro tragedie euripidee (l’Elettra, le Troiane, l’Elena e l’Ifigenia in Aulide) e sul ruolo assunto di volta in volta dalla mousike (l’insieme di canto, musica e danza) nell’economia del dramma in rapporto alla trama e alla caratterizzazione dei personaggi.

Dopo una sezione di «Abbreviations» (in cui colpisce l’impiego, per Elio Aristide, dell’edizione di W. Dindorf al posto della più recente e più affidabile edizione procurata da B. Keil, F. W. Lenz e C. A. Behr) e una «Note on editions and translations» (dove le abbreviazioni Kaibel 1887, Snell-Maehler 1987 e 1992, Hubert 1971, che non trovano scioglimento nella bibliografia finale, rinviano alle seguenti edizioni: Athenaei Naucratitae Dipnosophistarum libri XV, rec. G. Kaibel, II, Stutgardiae 1887; Pindari carmina cum fragmenta, edd. B. Snell – H. Maehler, Leipzig 19878; Bacchylidis carmina cum fragmentis, Stutgardiae-Lipsiae 197010, ristampata nel 1992 [ma è opportuno rifarsi, ora, alla successiva edizione, München – Leipzig 200311]), segue un capitolo introduttivo che reca l’accattivante sottotitolo «In Search of Tragedy’s Music» (1–21). Qui W. chiarisce i presupposti del proprio lavoro e l’approccio metodologico seguito: al fine di superare la visione tradizionale di un Euripide che, nell’ultima fase (a partire dai tardi anni ’20), ‹sacrifica› il Coro in favore delle monodie e lo marginalizza rispetto alla trama, la studiosa si propone di dimostrare come, al contrario, le parti corali anticipino fatti cruciali, presentino eventi che si svolgono fuori scena e contribuiscano a delineare il carattere dei personaggi. Nella sua analisi, la studiosa prende in considerazione «what is actually performed onstage and what is imagined through the words of the play» (17) ‒ una distinzione che deriva dai Sound Studies. È sulla seconda componente, denominata «imaginative suggestion» (17), che l’attenzione di W. si concentra, mentre è lasciato dichiaratamente in secondo piano l’aspetto metrico (14). La nozione di «imaginative suggestion» ingloba in sé quelle di «choral self-referentiality» e di «choral projection», enucleate da A. Henrichs, e denota «the associational process whereby the verbal element of a choral performance encourages the audience to experience its music and dance in a particular way» (17).

Nel primo capitolo, «Words, Music, and Dance in Archaic Lyric and Classical Tragedy» (23–58), W. rintraccia casi di «imaginative suggestion» in vari componimenti della melica arcaica e classica, al fine di mostrare come l’immaginario musicale dell’ultimo Euripide attinga a questa tradizione, che rimonta almeno al VII sec. a.C. (Alcmane). In questo senso, dunque, l’operazione del tragediografo «is also a form of archaizing, since it is Euripides who above all looks back to and draws from the musical motifs of archaic choral lyric, experimenting with how they can be integrated within a dramatic plot» (24). Da questo punto di vista, il lavoro di W. si inscrive, arricchendola, in quella tradizione degli studi (ricordata alla n. 4 di p. 24) che ha riscontrato nella tarda produzione euripidea una tendenza arcaizzante, definita da W. Kranz (Stasimon, Berlin 1933, 232) «Neubelebung ältester Form». Vale la pena di osservare, peraltro, che tale tendenza è stata ravvisata non solo sul piano formale, ma anche su quello dei contenuti: l’Elena, le Fenicie, l’Oreste e l’Ifigenia in Aulide, ad esempio, presentano importanti punti di contatto con il trattamento stesicoreo di questi miti (cf. ad es. J. M. Bremer, Stesichorus. The Lille Papyrus, in: J. M. Bremer – A. M. van Erp Taalman – S. R. Slings [edd.], Some Recently Found Greek Poems, Leiden 1987, 170; per ulteriori riferimenti rinvio a M. Ercoles, Stesicoro: le testimonianze antiche, Bologna 2013, 34s.). Per quanto concerne i casi di «imaginative suggestion» nella poesia melica, va osservato che non tutti i singoli casi addotti risultano parimenti convincenti. Nel «Grande Partenio di Alcmane» (PMGF 1), ad esempio, non è pacifico concludere che «the two choral leaders in this song, Agido and Hagesichora, are described through a series of metaphors as horses, doves, and stars» (27): se certo è il paragone delle ragazze con un cavallo ibeno ed uno colassio (vv. 58s.), non è invece sicura la loro equiparazione alle Πεληάδες del v. 60, né l’identificazione di queste ultime (colombe? Colombe come nome rituale? Pleiadi?). La varietà delle interpretazioni, riconosciuta alla n. 18 di p. 28, avrebbe dovuto invitare ad una maggiore cautela (per l’interpretazione astrale, oltre ai contributi di Csapo e Ferrari, si vedano almeno A. P. Burnett, The Race with Pleiades, CPh LIX, 1964, 30–34; G. O. Hutchinson, Greek Lyric Poetry, Oxford 2001, 9093; da ultimo, S. Caciagli, Un contesto per Alcm. PMGF 1, Eikasmos XX, 2009, 19–45, con ulteriore bibl.). Si noti, peraltro, che pur ritenendo più probabile l’identificazione con colombe (nonostante il contesto «astrale» dei vv. 60–63, con la menzione di Sirio), W. non esclude un riferimento alle Pleaidi: «given the flexibility of imaginative suggestion […] the two possible meanings of Pelēades are not necessarily mutually exclusive» (28). A ben vedere, l’ambiguità tra le due (differenti) immagini evocate, il volo degli uccelli e il movimento degli astri, dovrà imputarsi più alla nostra difficoltà di interpretare i versi alcmanici che ad un’originaria e artistica «flexibility». D’altra parte, tale ambiguità non sarebbe funzionale alla stessa «imaginative suggestion», che, si presume, doveva veicolare nel pubblico una determinata immagine. Sempre in merito al «Grande Partenio», giova osservare che il riferimento finale al canto delle Sirene (o delle Muse, qui chiamate Sirenidi? Cf. C. Neri, Lirici greci. Età arcaica e classica, Roma 2011, 272) non è l’unico caso di «imaginative suggestion» di natura acustica nel carme: subito dopo, ai vv. 100s., è evocato il canto del cigno, mentre ai vv. 85–87 le coreute paragonano la propria voce a quella di una «loquace civetta».

Il capitolo si chiude con un’utile sintesi dei riferimenti musicali presenti nei drammi di Eschilo, Sofocle e del primo Euripide, con lo scopo dichiarato di mostrare il loro differente impiego del linguaggio metamusicale rispetto all’ultimo Euripide: in essi, i riferimenti alla musica e alla danza si combinano con l’attività musicale e orchestica del Coro, la rafforzano, creano particolari effetti drammatici, ma non recuperano, se non sporadicamente (cf. e.g. Soph. Ant. 1146–1152), quel repertorio di figure musicali archetipiche (delfini, uccelli, cavalli, Nereidi, Sirene) proprio della tradizione melica, di cui si avvarrà ampiamente Euripide a partire dagli anni ’20.

A quattro tragedie di questa fase sono dedicati i capitoli 2–5, ciascuno dei quali propone un’attenta analisi della funzione dei canti corali e delle monodie nell’economia complessiva del dramma. Il secondo capitolo (59–99), dedicato all’Elettra, pone in evidenza, già dal titolo («Chorus, Character and Plot in Electra»), la duplice funzione della mousike nella tragedia: da un lato, essa è funzionale alla caratterizzazione della protagonista come personaggio isolato (i suoi interventi canori non si integrano con quelli del Coro, ed anche nell’unico lamento congiunto ai vv. 1177–1237 manca una vera partecipazione del Coro alle sofferenze di Elettra); dall’altro, essa accresce la tensione drammatica in alcuni momenti cruciali della vicenda. Quest’ultima funzione è assolta dai tre stasimi, che preparano, rispettivamente, la scena di riconoscimento tra Elettra e Oreste, l’uccisione di Egisto e quella di Clitemestra: tutti e tre «are closely integrated within the dramatic structure of Electra, working to push the mythos forward by anticipating and even enacting these pivotal events» (98). Questa conclusione è particolamente importante per i primi due stasimi, generalmente considerati ‘ditirambici’ e irrilevanti rispetto alla trama: W. mostra in modo convincente che le evocative immagini musicali con cui si aprono i due canti sono un modo per creare un efficace effetto di contrasto con le successive immagini ominose, che si chiudono con l’esplicita condanna di Clitemestra.

Il terzo capitolo, «Musical Absence in Trojan Women» (100–139), prende in considerazione la nota interpretazione dell’esordio del primo stasimo proposta da W. Kranz (o.c. 228), secondo cui i καινοὶ ὕμνοι del v. 512 si riferirebbero al nuovo stile musicale adottato da Euripide. Ponendosi nel solco di una ormai robusta serie di studi che ha reagito a questa esegesi, W. ritiene che i «nuovi inni» a cui il Coro fa riferimento siano da intendersi anzitutto in chiave intradrammatica: «the type of performance that would seem new to these Trojan women, now that they have abandoned their choreia, is lament. In this respect the call for ‹a funeral ode of new songs› does not so much apply to the ode itself, which does not feature any traditional markers of lament, but to the dominant song type of the surrounding drama» (128). L’esame della monodia di Ecuba e dei diversi interventi del Coro mostra con chiarezza l’incidenza del lamento nella mousike del dramma e la costante enfatizzazione dell’assenza della choreia del passato, e delle relative occasioni, nel presente. Per la menzione del lotos libio (v. 544), che ricorre anche in altre tragedie di Euripide, la bibliografia citata a p. 120 n. 69 va ora integrata con lo studio complessivo di questi riferimenti compiuto da A. Barker, Migrating Musical Myths, GRMS 6, 2018, 1–13 (secondo lo studioso, questa caratterizzazione dell’aulo rifletterebbe una tradizione mitica che riconduceva le origini dello strumento al Nord Africa, anziché alla Frigia).

L’Elena costituisce l’oggetto del quarto capitolo, «Protean Singers and the Shaping of Narrative in Helen» (140–190). W. pone in evidenza l’importanza della choreia nella tragedia sia in rapporto allo sviluppo della vicenda mitica, sia in rapporto alla caratterizzazione di Elena. Da un lato, il passaggio dai canti di lamentazione (parodo amebea e primo stasimo) ad una «more celebratory mousikē with a strongly Dionysian flavor» (141) nel secondo e terzo stasimo rispecchia e sottolinea l’evoluzione da una iniziale condizione di dolore ad un esito felice, con il ritorno dell’eroina in Grecia. Dall’altro lato, la serie di figure musicali evocate lega i canti tra loro sotto il segno di Elena: «these images – from the Sirens to the mourning nightingale, the Great Mother, and the syrinx-playing crane – all ultimately refer to Helen herself, who thus becomes a multiform figure, appearing in different musical guises at different stages of the narrative» (142). Per W., tutti questi alter ego della protagonista riprenderebbero e amplificherebbero il motivo centrale dello sdoppiamento di Elena nel suo eidolon e farebbero dell’eroina «the ultimate shape-shifter as well as the ultimate chorēgos» (143) – una corega dapprima presente (parodo) e poi fisicamente assente, ma evocata o immaginata dal Coro (primo e terzo stasimo).

Questa intepretazione complessiva risulta attraente per più aspetti, ma, a ben vedere, non del tutto persuasiva. Il ruolo di corega di Elena non appare nel dramma così rilevante come la studiosa vorrebbe mostrare. Altro rilievo hanno, per contro, le varie immagini musicali evocate nei canti, le quali creano indubbiamente una fitta rete di allusioni mitiche che arricchisce la tragedia e costituisce un «fil rouge» tra i vari interventi del Coro. A mio avviso, però, non tutte le immagini possono essere interpretate come geminazioni di Elena, se non a costo di qualche forzatura. Mi pare preferibile la lettura di A. Barker (Simbolismo musicale nell’Elena, in: P. Volpe Cacciatore [ed.], Musica e generi letterari nella Grecia di età classica, Napoli 2007, 7–22), secondo cui le geminazioni del dramma non coinvolgono la sola Elena: per lo studioso le Sirene musiciste della parodo avrebbero il loro doppio nell’ἀηδὼν ἐλελιζομένα (v. 1112) del primo stasimo, e l’usignolo, a sua volta, sarebbe reduplicato nel secondo stasimo nella figura di Demetra, in quanto mater dolorosa.

Il quinto capitolo, «From Choreia to Monody in Iphigenia in Aulis» (191–231), pone in evidenza l’evoluzione musicale della tragedia, da una prima parte caratterizzata da un’elevata presenza di canti corali ad una seconda segnata dalle due monodie di Ifigenia, e ravvisa in questo passaggio un modo per sottolineare musicalmente lo sviluppo del dramma, con la progressiva focalizzazione sulla protagonista. Come in altre tragedie dell’ultimo periodo, poi, gli stasimi allargano lo sguardo dello spettatore nello spazio e nel tempo mediante la descrizione di ciò che non si vede sulla scena. L’attenzione della studiosa si concentra, in particolare, sulla parodo (in part. vv. 206–241), sul primo e sul terzo stasimo (vv. 543–606 e 1036–1097), dove occorrono figure musicali (le Nereidi ritratte sulle poppe delle cinquanta [!] navi mirmidoni) o intere scene musicali (Paride che suona la syrinx sull’Ida; l’imeneo per Teti e Peleo eseguito dalle Muse con l’accompagnamento orchestico delle Nereidi). Tramite il processo di «imaginative suggestion» tali scene sono portate dal Coro sotto gli occhi del pubblico: suoni e movenze evocate nel canto si sovrappongono alla reale «performance» che ha luogo nell’orchestra. Di questo processo i versi che ritraggono Paride nell’atto di suonare la syrinx Φρυγίων / αὐλῶν Οὐλύμπου καλάμοις / μιμήματα †πνέων† (vv. 577s.) offrono «a surprisingly direct description […] with the phrase ‹breathing imitations [mimēmata] of the Phrygian auloi of Olympus› (576–578)». Così rileva W., che aggiunge: «this is the only time in extant tragedy that music is described as mimēmata», mentre «direct allusions to the mimetic enactment or representation of musical sound (and movement) appear in earlier, nondramatic choral lyric, especially in Pindar» (209), come mostra, ad esempio, la Pitica 12 (v. 21 σὺν ἔντεσι μιμήσαιτ’ ἐρικλάγκταν γόον). Ancora una volta, quindi, Euripide innova guardando al passato e adattando ad un nuovo contesto motivi tradizionali. Oltre alla suggestiva evocazione di lontani momenti musicali in contrasto con (e, nel contempo, legati a) il presente dell’azione scenica, il terzo stasimo assolve anche ad un «anticipatory effect» (192 e 224): il passaggio dal gioioso imeneo alle grida scomposte dei Centauri introduce nel canto la profezia di Chirone su Achille distruttore di Troia e, in questo modo, anticipa l’inevitabile svolgimento degli eventi.

Di particolare interesse è la discussione sul corale dei vv. 1510–1532, per lo più ritenuto spurio soprattutto a causa delle ripetizioni tra questi versi e la precedente monodia della protagonista (vv. 1475–1509): W. ritiene che tali ripetizioni siano intenzionali e che rispondano alla volontà di creare una rispondenza tra i due canti e di affermare il ruolo di corega di Ifigenia. Nella stessa direzione, con un richiamo al peana di lamento presente nell’Ifigenia fra i Tauri (vv. 125–235), si è mossa E. Cerbo (Χαῖρέ μοι, φίλον φάος. Il commiato di Ifigenia dalla scena (Eur. IA 1467–1509), in C. Braidotti – E. Dettori – E. Lanzillotta [edd.], οὐ πᾶν ἐφήμερον. Scritti in memoria di Roberto Pretagostini, Roma 2009, 93–106), non citata da W.

Nell’ultimo capitolo, «Conclusion. Euripides’ Musical Innovations» (233–246), W. ricapitola i vari modi con cui la mousike ‒ sia quella realmente eseguita che quella evocata nel canto ‒ si integra nella vicenda drammatica e contribuisce ad arricchirla o ad intensificarla, determinando una certa reazione emotiva nel pubblico. Soffermandosi su ques’ultimo aspetto, W. rileva che «when Euripides employs traditional figures of chorality, such as Nereids, Sirens, dolphins, horses, or birds, he also exploits their metamusical character – that is, how they can interact with the live performance of choreia. His choruses thus become hypermimetic, assuming different identities within a single song while retaining their dramatic one» (236). Questo svariare di identità sollecita un’attiva partecipazione del pubblico, chiamato a visualizzare mentalmente le figure evocate e a «connect the verbal and musical/choreographic components of choreia and swiftly move from one combination to another while also fitting it within their understanding of the dramatic narrative» (ibid.). Non sempre, però, l’ultimo Euripide impiega la mousike in questo modo ‹ipermimetico›: il caso delle Baccanti, preso in esame da W. alla fine delle conclusioni, presenta un Coro di natura dionisiaca che non assume altre identità rispetto a quella drammatica e che, coerentemente, esegue solo musica dionisiaca. In questa tragedia, andata in scena nello stesso anno dell’Ifigenia in Aulide, «mousikē is almost indistinguishable from the mythos» (245), come già nelle Bassaridi di Eschilo: ciò mostra ‒ conclude la studiosa ‒ «how difficult it is to categorize Euripides’ ‹new music› and complicates the argument I have presented here about the nature of his musical innovation» (244s.).

In sintesi, lo studio di W. offre un importante correttivo all’idea diffusa che i canti dell’ultimo Euripide, musicalmente elaborati e ricchi di belle immagini poetiche, siano del tutto avulsi dalla trama delle tragedie: ad un’attenta analisi, tali canti rivelano una serie di connessioni con la vicenda mitica drammatizzata. Tali connessioni passano spesso per quelle «traditional figures of chorality» (236) che Euripide riprende dalla melica corale arcaica e classica e che arricchiscono la trama di significati e di suggestioni. Ci si può chiedere, però, se la complessa partecipazione attiva degli spettatori presupposta dalla studiosa (vd. in part. p. 236) fosse davvero alla portata di tutto il pubblico; a ben vedere, appare più verosimile pensare a una serie reazioni che, a seconda del livello culturale del pubblico, potevano svariare da un più basilare convolgimento emotivo o cinestetico ad un apprezzamento via via maggiore delle implicazioni insite nella mousike.

Dal punto di vista metodologico, la nozione di «imaginative suggestion» appare utile, in quanto capace di racchiudere in sé quelle di «choral self-referentiality» e di «choral projection», ed efficace, come mostrano le analisi dei capp. 2–5. Qualche perplessità suscita semmai l’estensione di tale nozione fino ad includere elementi del paesaggio («the river Ismenus and the Pythian rock», 17) o descrizioni di viaggi (56): se l’«imaginative suggestion» comporta solitamente che il Coro assuma temporaneamente l’identità della cosa evocata, in questi casi tale procedimento appare escluso.

In conclusione, non si può che salutare con favore l’uscita di questo volume ed auspicare che Weiss voglia estendere il suo lavoro alle altre tragedie del tardo Euripide.

Published Online: 2021-11-16
Published in Print: 2021-11-09

© 2021 Marco Ercoles, published by De Gruyter.

This work is licensed under the Creative Commons Attribution 4.0 International License.

Downloaded on 7.5.2024 from https://www.degruyter.com/document/doi/10.1515/klio-2021-3002/html
Scroll to top button