Articoli
Eva Illouz, Contro il desiderio. Un manifesto
Aldo Marroni, Strategie estetiche e corporali dell’eros
Enea Bianchi, Eva Illouz e i paradossi del “capitalismo emotivo”
Emiliano Ranocchi, La donna e la macchina nelle avanguardie europee degli anni Venti
Alberto Martinengo, Ascesi e gioia dell’anima in Meister Eckhart
Kristin Sampson, Beyond the Subject: Early Greek Conceptions of Corporality
Arild Utaker, Philosophy and the Denial of the Body
Saggi
Stein Arnold Hevrøy and Hans Jacob Ohldieck Folds, Vitality, Fragility: Gilles Deleuze and Mario Perniola
Massimo Donà, Di una ingannevole bellezza. Arte e disincanto estetico
Intervista
Morgan Sportès Tutto e subito, a cura di Maria Teresa Ricci
Recensioni
Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, Cos’è una tragedia attica? (Marika Pensa)
Fabrice Midal, Conferenze di Tokyo. Martin Heidegger e il pensiero buddista (Marco Viscomi)
Sergio Benvenuto – Antonio Lucci, Lacan, oggi. Sette conversazioni per capire Lacan (Federico Leoni)
Luciano Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi (Paolo Santori)
Aldo Marroni, La decivilizzazione estetica della società. Sul sentire neo-cinico (Antonio Romano)
Il titolo che è stato scelto per questo numero di “Ágalma” è un pass-partout che comprende nozioni, problematiche, e metodologie scientifiche diverse tra loro. Ne è risultato un numero in cui si confrontano e si affiancano strategie teoriche e militanti spesso non convergenti. Ciò dipende anche da una difficoltà oggettiva che proviene dalla complessità e dalla ricchezza della terminologia adoperata per designare l’ambito affettivo ed emozionale che ruota intorno alle pulsioni erotiche e alle energie psichiche che esse mobilitano. Già la stessa parola desiderio apre un orizzonte semantico-concettuale molto vasto e tutt’altro che chiaro. Nel lessico del greco antico troviamo molte parole per indicare l’interiore protendersi verso un obiettivo: epithumía, órexis, érōs, thumós.
Ognuna di queste presenta aspetti specifici e ha dato luogo a teorie filosofiche, interpretazioni e ricerche molto differenti. Apparentemente più semplice sembra focalizzare l’attenzione sulla lingua latina. Ma anche qui troviamo tre termini: cupiditas (da cupio, il cui contrario è metuo, temo, ho paura) libido (dalla forma impersonale libet, sovente opposto a licet, impersonale che sta per “essere permesso” ma il cui significato paradossalmente è prossimo a libet, nel senso di “non faccio obiezioni” e quindi “va bene, accetto”) e infine desiderium (da desidero, che proviene da sidus, stella, inteso dagli antichi come opposto a considero, esaminare con cura e rispetto).
Se si passa dalle lingue antiche al tedesco, si incontrano difficoltà non minori, specialmente per la traduzione di una parola chiave del lessico di Freud, Wunsch, che definendo un meccanismo psichico inconscio e automatico non ha niente a che fare col desiderio soggettivo così com’è comunemente inteso. Inoltre Freud adopera anche molte altre parole, come Begierde, Begehren, Lust che talvolta vengono tradotte con “desiderio”. Se poi a tutto ciò si aggiungono i discorsi sulla passione, il piacere, la gioia, il corpo, la sessualità, l’amore e quant’altro, scivolando surrettiziamente sul piano normativo, cioè pretendendo di fornire ricette della buona vita, vengono meno le condizioni elementari di un dialogo.
Perciò l’approccio filologico deve essere integrato da quello speculativo. La ragione di questa difficoltà non è priva di relazioni con la svolta soggettiva che all’inizio dell’età moderna Montaigne e Descartes hanno dato alla cultura occidentale. Tale questione ha assunto nel quadro della riflessione attuale un rilievo fondamentale, specialmente in seguito all’egemonia dello spontaneismo vitalistico: attraverso una valanga di “scritture dell’io”, prive di ogni autocontrollo e di ogni consapevolezza del carattere problematico della scrittura, si dà per scontato che il linguaggio sia qualcosa di immediatamente trasparente. Il posto della letteratura è stato preso dalla comunicazione, la quale attraverso interviste giornalistiche, reportage, autobiografie, blog, e social network ha dato a tutti la possibilità di parlare a ruota libera di se stessi, dei propri pensieri, desideri, aspirazioni col risultato che tutta questa centralità del soggetto desta una minima attenzione solo a condizione di rivelare particolari scandalosi e piccanti sulla propria vita intima.
Tale tendenza solleva un profondo disagio quando si passa dall’ambito del pensare e del raccontare a quello del sentire e del giudicare: qui ognuno si sente in diritto di esprimersi senza remore e riserve, facendo del proprio io il centro dell’universo. Il posto di Dio, della storia, della collettività è stato preso dall’io, della cui consistenza – negli attuali processi di disgregazione psichica e mentale – si deve nutrire più di un ragionevole dubbio.
Perciò non sembra inutile ricordare che esistono altre tradizioni culturali, come il buddhismo, che fanno dell’annullamento del desiderio e del sentire soggettivo il punto di arrivo del loro cammino. “In Giappone, coloro che si amano non dicono ‘ti amo’, ma ‘c’è dell’amore’, come si direbbe che c’è della neve o sorge il sole. Non si dice ’tu mi manchi’ ma ‘c’è della tristezza senza la tua presenza, c’è dell’abbandono’. Una specie di d’immenso impersonale che oltrepassa l’io” (Elena Janvier). Tuttavia anche nella modernità occidentale esiste un filone di pensiero che ha gettato le basi di un pensare e di un sentire impersonale: Hume e Lichtenberg, Mach e Musil e perfino Kant rientrano in questa tendenza. Il mio libro Il sex appeal dell’inorganico (Einaudi) si pone in questa tradizione.
Mi è stato riferito un episodio, a suo modo divertente, sul pensiero delle campagne in merito alle consuetudini matrimoniali.
In occasione della redazione di una tesi di laurea sulla mentalità tradizionale in un ben preciso e circoscritto ambito territoriale, un parroco di campagna era rimasto molto turbato, quando l’autrice dell’inchiesta, armata di questionario e opportuni mezzi di registrazione, si era presentata a lui, ponendogli questa provocatoria domanda: “Ma ci si sposa ‘ancora’…?” aggiungendo poi, dopo una pausa di sospensione “…in chiesa…”, ma solo per rendere il quesito più vicino a lui e alla sua ottica. L’intervistatrice, tuttavia, intendeva non solo lì, ma in generale, ritenendo quella pratica retaggio di tempi remoti. Quello che infatti aveva in mente però era argomento di sociologia, non tematica per preti rurali.
Il pover’uomo rimase, pare, letteralmente senza parole (forse gli sarà venuta in mente l’intimazione dei bravi a don Abbondio, “Or bene,” gli disse il bravo all’orecchio, ma in tono solenne di comando, “questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai.” [Alessandro Manzoni, I promessi sposi ]…); interdetto balbettò, incespicò, non seppe comunicare altro che non fosse il suo stupore. La responsabile di tale disagio, subito pentita per averlo messo in crisi, cercò di rimediare al suo sconcerto ridimensionando il contenuto del quesito e accollandosi la colpa di non essersi saputa esprimere.
In realtà la faccenda che, per esigenze di un ben preciso schema programmatico era stata posta in quei termini così ‘brutalmente’ sintetici, andava molto al di là, molto oltre quanto, in fin dei conti, era stato bonariamente richiesto.
Non si trattava solo di una perplessità istintiva sull’istituto matrimoniale, religioso o civile che fosse, ma di una ben precisa convinzione che aveva ormai trovato conferma nei fatti. Forse per adeguarsi al suo interlocutore e per usare il suo lessico, quello a lui comprensibile, l’autrice aveva adoperato il termine improprio ‘matrimonio’ per farsi capire con immediatezza, ma con questa parola si intendeva, in senso lato, l’unione di due persone, un prodigio, un evento miracolistico, in cui però, nonostante la situazione, non c’era nulla di soprannaturale.
Forse, quella formulata era una frase certo in linea con le modalità della ricerca, indagine di tipo socio-antropologico, ma scaturiva da altre considerazioni, da alcune innate consapevolezze.
Certo sondare in quella particolare area la vitalità o meno di una istituzione così ‘antica’, era in linea con le modalità della ricerca-inchiesta. Si parlava di sicuro di un fattore antropologico presente fin dai tempi più remoti:
Dal dì che nozze e tribunali ed are
dier alle umane belve esser pietose
di se stesse e d’altrui, toglieano i vivi
all’etere maligno ed alle fere
i miserandi avanzi che Natura
con veci eterne a sensi altri destina.
(Ugo Foscolo, Dei Sepolcri, vv.91-96).
Già, così accadeva, ma cosa c’era dietro? Cosa voleva dire ‘nozze’, ‘matrimonio’? Amore forse? No certo.
Sotto l’aspetto del banale rapporto coniugale le varie classi sociali, sia pur con modalità differenti nei diversi contesti storici, avevano coperto per secoli la vera natura contrattuale del vincolo tra un uomo e una donna, si trattava di un ‘affare’, più o meno vantaggioso, basato su interessi economici o di casta, stipulato dai genitori, in cui l”utile’ era lo scopo, la finalità principale, il tutto basato esclusivamente sull’aspettto mercantile. L’Ottocento comincerà ad insinuare la possibilità dell’amore passionale, sempre però al di fuori del connubio che doveva dare origine alla famiglia borghese, ben tutelata dai rischi di sentimenti travolgenti. Solo nel Novecento comincia a farsi strada l’idea che ci si poteva sposare fuori da questi schemi mentali, ma l’era del capitalismo doveva inquinare questi iniziali tentativi di resistenza a modelli precostituiti e consolidati nel tempo.
Non c’è scampo: quello, il matrimonio appunto, è sempre stato il luogo veniale per eccellenza, il posto del, ‘contratto’.
Se, come recita un noto detto anonimo attribuito ad Agostino d’Ippona: ‘la misura dell’amore è amare senza misura’, allora capiamo subito che questa affermazione è esattamente agli antipodi di una pratica contrattuale, basata, nella migliore delle ipotesi, sullo scambio, sul do ut des. Un accordo, un patto merceologico tra due contraenti. Stiamo parlando per l’appunto di merci, di acquisti, di venalità. Mentre invece è tutt’altro, come sostiene Friedrich Nietzsche in una tra le sue opere più famose: “quel che si fa per amore, è sempre al di là del bene e del male” (Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male).
Che ci fosse tuttavia un nesso tra denari e possessi amorosi, qualcuno l’aveva già intuito anche in tempi di stilnovismo.
Qual è senza danari ’nnamorato
faccia le forch’e ’mpicchis’elli stesso,
ch’e’ non muor una volta, ma più spesso,
che non fa que’ che del ciel fu cacciato. (Cecco Angiolieri, RimeLXXXVIII – Qual è senza danari ‘nnamorato)
Già, questo è dunque assodato: si tratta di circostanze antitetiche, i beni, il denaro, l’economia, il mercato, l’interesse da un lato e l’amore dall’altro, non si possono accostare, come dire, uno esclude l’altro, senza possibile conciliazione. Gli opposti, ci insegnano i filosofi, non possono comporsi, accordarsi; lo dice Aristotele con il principio di non contraddizione.
Ma qualcuno poi si è spinto più avanti e già Eraclito cercava l’armonia e poi ancora Nicolò Cusano per il quale gli opposti si fondono in un’unità indistinta, è la logica dell’infinito; e infine Hegel. Ma ritorneremo su questo punto.
Del resto lo avevano già capito i poeti provenzali e Andrea Cappellano formula espressamente tale concetto nel De amore: l’amore non è nel matrimonio.
Ammetto, ed è vero, che vostro marito è molto gentile e più di tutti al mondo è privilegiato dalla gioia della beatitudine, poiché meritò di avere i piaceri della vostra nobile persona. Però mi meraviglio molto che all’affetto coniugale, che tutti i coniugi con il vincolo del matrimonio sono tenuti a scambiarsi, voi volete dare impropriamente il nome d’amore, quando invece si sa che tra marito e moglie l’amore non può avere luogo. E pure ammettendo che siano legati da grande e smisurato affetto, tuttavia il loro non può prendere il posto dell’amore giacché non può essere inteso in base alla vera definizione d’amore. Che altro è l’amore se non smisurato e concupiscente desiderio di abbracci furtivi e nascosti? Ma quale abbraccio furtivo, per favore, può esserci tra coniugi, quando si dice che l’uno possiede l’altro e senza paura di rifiuto entrambi possono soddisfare tutti i desideri e le voglie che hanno? Persino l’importantissima legge dei prìncipi insegna che nessuno può usare una sua propria cosa con piacere furtivo. E non vi sembri assurda la mia affermazione che, sebbene le persone sposate siano unite da profondissimo affetto d’amore, tuttavia il loro affetto non può fare le veci d’amore, perché vediamo che la stessa cosa accade nell’amicizia. […] Pertanto, poiché a ogni donna gentile conviene amare saggiamente, senza offesa potete accogliere le preghiere di chi chiede amore e dare amore a chi lo chiede. ( Andrea Cappellano, L’amore vero è sempre extraconiugale, De Amore)
Andrea Cappellano, forse è stato il primo a teorizzare in modo negativo sul matrimonio; ha avuto poi tanti epigoni: “Era considerato un saggio colui che alla domanda quando un uomo debba sposarsi rispose: ‘Un uomo giovane non ancora, un uomo un po’ il là con gli anni assolutamente mai’.” (Francesco Bacone Saggi).
Quel presupposto che sta dunque alla base del mariage porta infatti ad ottenere il contrario di quello che l’unione presupponeva: “Se temete la solitudine, non sposatevi” (Anton ?echov Taccuini).
Dove si trova allora questo fantomatico amore? In qualche luogo ideale? Ci sarà da qualche parte?
Neppure supporre questo, è sufficiente. Si straparla di amore come di cosa ovvia, comune, quotidiana, a cui tutti possono accedere. Non è così.
Anche Dante del resto, tenendo presente la lezione degli stilnovisti ci dice chiaramente che sono indispensabili alcune doti peculiari non comuni.
Amore e cor gentil sono una cosa (Dante Alighieri, Vita nuova, ).
Amor al cor gentil ratto s’apprende (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, canto V, v. 100 ).
Amor, ch’a nullo amato amar perdona (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, canto V, v.103)
Al cor gentil rempaira sempre amore
come l’ausello in selva a la verdura;
né fe’ amor anti che gentil core,
né gentil core anti ch’amor, natura. (Guido Guinizelli, canzone Al cor gentil rempaira sempre amore)
Invece, per l’appunto, intendiamo parlare di un portento, un prodigio, monstrum, un evento eccezionale, raro, rarissimo nei mortali, presente forse solo negli dei… se però quegli dei siamo noi.
Se invece vogliamo stare ben ancorati alla terra senza smarrirci e restando nel nostro mondo, ci conforta un altro poeta: “L’amore è uno scampolo mortale di immortalità” (Fernando Pessoa, La divina irrealtà delle cose).
Eppure: ”È certo che al mondo nulla è necessario agli uomini quanto l’amore” (Johann Wolfgang Goethe, I dolori del giovane Werther).
Qualcosa di speciale certo, di unico, anche se non necessariamente, i protagonisti di questo evento debbano essere per forza identici: L’amore è la capacità di avvertire il simile nel dissimile” (Theodor Adorno, Minima moralia).
C’è da confondersi, ma non perdiamoci d’animo, cerchiamo qualche certezza: “Cos’è che non muta mai, anche se tutto muta? È l’amore, e amore è solo quello che mai si muta in qualcos’altro” (Søren Kierkegaard, Discorsi edificanti). Forse siamo ormai in un’altra dimensione perché: “L’amore senza eternità si chiama angoscia: l’eternità senza amore si chiama inferno” (Gustave Thibon, L’ignorance étoilée). Certo il bilancio matrimoniale è sconfortante, soprattutto perché c’è anche il rischio di precipitare nell’assurdo, nella dimensione dell’incomunicabilità, dell’estraneità, dell’alterità se non dell’alienazione : “Com’è bizzarro, curioso, strano! Dunque, signora, noi abitiamo nella stessa camera e dormiamo nello stesso letto, cara signora. Forse è lì che ci siamo incontrati!” (Eugène Ionesco La cantatrice chauve). Ma poi, anche qualora si verificassero le più vantaggiose condizioni ‘economiche’ entro quel famoso contratto stipulato a ‘cuor leggero’, è proprio il caso di dire così, siamo proprio sicuri di aver fatto un affare se è pur vero che: “La maggior parte delle donne sono incapaci sia di fare felice il proprio marito dentro casa, sia di permettergli di essere felice con un’altra fuori casa” (Noel Clarasó, Antologia di testi e citazioni, Heap, 1992). Non si è poi considerato che non si può pensare di impostare in termini economici e/o utilitaristici ciò che deve generarsi da solo: ”L’amore è un’erba spontanea, non una pianta in giardino” (Ippolito Nievo, Le confessioni di un italiano).
Ma Hegel infine rassicura. La sua dialettica ci porta alla sintesi, sì, qui però ci perdiamo nell’astrazione della speculazione filosofica e la realtà diviene puro pensiero, ‘rete di concetti’, processo cosmico che comprende in sé ogni cosa e arriva alla coincidentia oppositorum; come ci spiega Giordano Bruno che scioglie nell’Uno le antinomie, annullando ogni dualismo; ma come sappiamo siamo nel panteismo, un’identificazione con il divino; il nostro frate domenicano ci porta nel mondo della magia, non in quello degli uomini comuni. Sì appunto, della magia: “Qui come venn’io o quando?; credendo esser in ciel non là dov’era” (Francesco Petrarca il Canzoniere Chiare, fresche et dolci acque, CXXVI, VV.62-63).